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TAR VENETO, Sez. II, 15 novembre 2007, sentenza n. 3630
BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Interventi su beni immobili tutelati ai sensi del D.Lgs. n. 490/99 - Competenza
esclusiva degli architetti - Art. 52 R.D. n. 2537/25 - Disapplicazione -
Disparità di trattamento tra ingegneri civili italiani e ingegneri appartenenti
a stati membri - Equiparazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere
civile e architetto - Art. 3 Cost. - Dir. 348/85/CEE. L’art. 52 del RD n.
2537/25 - che la Corte Costituzionale ha affermato avere natura regolamentare -
in ordine agli interventi su beni immobili sottoposti alla speciale tutela di
cui al DLgs n. 490/99 preclusi agli ingegneri civili, viola il principio di
uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione: esso realizza una evidente,
ingiusta e irragionevole, disparità di trattamento, atteso che agli ingegneri
civili che hanno conseguito il diploma di laurea in Italia è impedito l’accesso
ad attività professionali che l’Amministrazione statuale non può, invece, per
effetto della direttiva comunitaria n. 384/85, vietare agli ingegneri civili che
hanno ottenuto il titolo in altri Stati membri. La norma va pertanto
disapplicata in conformità al principio di gerarchia delle fonti, che regola il
conflitto tra fonte primaria ed atto di normazione secondaria. Peraltro, la
norma in questione, limitando l’attività degli ingegneri che abbiano conseguito
il titolo in Italia attraverso un percorso formativo analogo a quello degli
architetti, contrasta palesemente con il principio comunitario (recepito
dall’Italia con il DLgs n. 129/92) che stabilisce la equiordinazione sul piano
comunitario dei titoli di ingegnere civile ed architetto, nonché con il
principio di parità di trattamento tra cittadini italiani e cittadini degli
altri stati membri introdotto dall’art. 2, I comma, lett. h) della legge
comunitaria 2004 (legge 18.4.2005 n. 62). Pres. Zuballi, Est. Rovis - M.A. e
Ordine degli Ingegneri di Verona e Provincia (avv.ti Sardos Albertini, Piva e
Zambelli) c. Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Avv. Stato) -
T.A.R. VENETO, Sez. II - 15 novembre 2007, n. 3630
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL VENETO,
seconda sezione
Ric. n. 1994/2001
Sent. 3630/07
con l'intervento dei signori magistrati
Umberto Zuballi Presidente
Claudio Rovis Consigliere, relatore
Alessandra Farina Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
ricorso n. 1994/2001, proposto da MOSCONI ALESSANDRO e dall’ORDINE DEGLI
INGEGNERI DI VERONA E PROVINCIA, in persona del Presidente pro tempore,
rappresentati e difesi dagli avv.ti Gian Paolo Sardos Albertini, Paolo Piva e
Franco Zambelli, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in
Venezia-Mestre, via Cavallotti 22;
CONTRO
il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in persona del Ministro pro
tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato,
domiciliataria per legge nella sua sede in Venezia, S.Marco 63;
e nei confronti
del Comune di San Martino Buon Albergo (Verona), in persona del Sindaco pro
tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Aldo ed Elisa Fichera e Giovanni
Battista Maggiolo con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in
Venezia, S. Marco 3481;
con l’intervento ad adiuvandum
del Consiglio nazionale degli ingegneri, in persona del Presidente pro
tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Bruno Nascimbene, Massimo
Condinanzi, Gian Paolo Sardos Alberini e Paolo Piva con domicilio eletto presso
lo studio dell’avv. Fanco Zambelli in Venezia-Mestre, via Cavallotti 22;
e con l’intervento ad opponendum
del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e
conservatori, in persona del Presidente pro tempore, e dell’Ordine degli
architetti di Verona, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e
difeso dagli avv.ti Francesco Sciandone e Alfredo Biagini, con domicilio eletto
presso lo studio di quest'ultimo in Venezia, S. Croce 466/g;
PER
l’annullamento del provvedimento 19.6.2001 n. prot. 10017 con il quale la
Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici di Verona ha
implicitamente negato all’Ing. Mosconi l’autorizzazione al subentro nella
direzione dei lavori, oggetto della concessione edilizia n. 29/01, su un
immobile vincolato sottoposto alla tutela ex d. lg. 490/99, affermando
l’esclusiva competenza degli architetti.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero e del Comune intimati;
visti gli atti di intervento in giudizio del Consiglio nazionale degli
ingegneri, del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti
e conservatori e dell’Ordine degli architetti di Verona;
viste le memorie prodotte dalle parti;
vista la propria ordinanza n. 4236/01 del 24 ottobre 2001 con cui è stato
sospeso il giudizio e sono stati rinviati gli atti alla Corte di giustizia delle
comunità europee per la pronuncia pregiudiziale – ex art. 234 Trattato CE -
sull’interpretazione degli artt. 10 e 11 della direttiva n. 384/85;
vista l’ordinanza della Corte di giustizia delle comunità europee (IV sez.) 5
aprile 2004 recante la pronuncia pregiudiziale richiesta da questo Tribunale;
Vista l’ordinanza 19.4.2007 n. 130 con cui la Corte costituzionale, investita
con ordinanza 28.9.2005 n. 3600 di questo Tribunale della questione di
costituzionalità dell’art. 52, II comma del RD n. 2537/25 in relazione agli
artt. 3 e 41 Cost., l’ha dichiarata manifestamente inammissibile;
Viste le memorie delle parti;
Visti gli atti tutti di causa;
Uditi alla pubblica udienza del 31 ottobre 2007 - relatore il Consigliere
Claudio Rovis – i procuratori delle parti;
Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO
Con nota 4.6.2001 il signor Emilio Pasqua di Bisceglie per la proprietà, l'arch.
Sergio Spiazzi quale direttore dei lavori uscente e l'ing. Alessandro Mosconi
quale direttore dei lavori subentrante comunicavano al Comune di S. Martino B.A.
ed alla Soprintendenza ai beni ambientali ed architettonici di Verona la
sostituzione del direttore dei lavori oggetto della concessione edilizia n.
29/01 riguardante un immobile vincolato ai sensi del DLgs n. 490/99.
Pochi giorni più tardi, il nuovo direttore dei lavori notiziava la
Soprintendenza che i lavori stessi avrebbero avuto inizio il successivo 18
giugno.
Alle predette comunicazioni replicava la Soprintendenza con nota 19.6.2001
affermando l'esclusiva competenza degli architetti, ai sensi dell'art. 52, II
comma del RD n. 2537/25, in ordine agli interventi su beni immobili sottoposti
alla speciale tutela di cui al DLgs n. 490/99.
L'ing. Mosconi, ritenendo tale determinazione lesiva, la impugnava unitamente
all'Ordine degli ingegneri di Verona.
Secondo i ricorrenti la mancata, piena equiparazione della laurea in ingegneria
civile a quella in architettura violava apertamente la direttiva CEE 10.6.1985
n. 384 (ora sostituita dalla direttiva n. 36/05) – che, intesa ad uniformare
negli Stati membri le condizioni minime per la formazione di coloro che operano
nel settore dell’architettura al fine di assicurarne il reciproco
riconoscimento, qualificava l’architetto sotto un profilo sostanziale,
riconoscendo tale professionalità a chi avesse conseguito il titolo abilitativo
durante un ciclo di formazione rispondente ai requisiti di cui agli artt. 3 e 4
della medesima direttiva (numero minimo di anni di studio e specifico percorso
didattico in materie architettoniche) e fosse, perciò, incluso nell’elenco
formato ex art. 7 o, in regime transitorio, ex art. 11 della direttiva stessa -,
attuata in Italia con il DLgs 27.1.1992 n. 129 (modificato con l’art. 16 della
legge n. 14/03).
Resistevano in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali, il
Comune di S. Martino B.A. ed il Consiglio nazionale degli architetti,
quest’ultimo intervenuto ad opponendum, i quali, rilevando l’infondatezza del
gravame, concludevano per la sua reiezione.
Interveniva ad adiuvandum, invece, il Consiglio nazionale degli ingegneri.
Con ordinanza 24.10.2001 n. 4236 il Tribunale, atteso che al riguardo aveva in
tempi pregressi adottato due pronunce tra di loro contrastanti – la prima (sez.
I, 9.3.1999 n. 307) favorevole alla disapplicazione dell’art. 52 del RD 2537/25
e la seconda (sez. I, 28.6.1999 n. 1098) contraria -, rimetteva gli atti alla
Corte di giustizia delle comunità europee per la pronuncia pregiudiziale
sull’interpretazione degli artt. 10 e 11 della direttiva n. 384/85, richiedendo,
in particolare, se le predette disposizioni (nelle quali si precisa che il
titolo di ingegnere civile è equiparato, ai fini dell’accesso ai servizi nel
settore professionale dell’architettura, a quello di architetto) imponessero ad
uno Stato membro di non escludere dall’accesso alle prestazioni dell’architetto
i propri laureati in ingegneria civile che avessero seguito un percorso
didattico conforme alle prescrizioni di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva
stessa.
Con ordinanza 5.4.2004 la IV sezione della Corte di giustizia si è pronunciata
sulla questione statuendo che la direttiva n. 384/85 non si occupa del regime
giuridico di accesso alla professione di architetto vigente in Italia, ma ha ad
oggetto solamente “il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei
diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati
requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo
di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera
prestazione di servizi per le attività del settore dell’architettura”.
Secondo la Corte, dunque, impregiudicata la possibilità che la normativa
nazionale riservi ai soli architetti i lavori sugli immobili di interesse
storico artistico sottoposti a vincolo, la direttiva in questione esclude che
tale riserva possa operare anche nei confronti dell’ingegnere civile che abbia
conseguito il titolo abilitativo in altro Stato membro seguendo un ciclo
formativo rispondente agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa.
In tale contesto, peraltro, l’eventuale discriminazione “al rovescio” che potrebbe colpire il professionista italiano – la cui sussistenza viene pacificamente ammessa dalla Corte – costituisce, secondo la Corte di giustizia, questione meramente interna che lo Stato italiano deve risolvere alla stregua del proprio ordinamento.
Preso atto di tale determinazione, con ordinanza 28.9.2005 n. 3600 l’intestato
Tribunale, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 52, II comma del RD n. 2537/25 nella parte
in cui stabilisce una riserva di attività a favore degli architetti che,
applicabile agli ingegneri civili che hanno conseguito il titolo abilitativo in
Italia, non è invece applicabile agli ingegneri civili in possesso di titolo
professionale rilasciato dagli altri Stati membri (giusta la precisazione
contenuta nella pronuncia 5.4.2004 della Corte di giustizia), trasmetteva gli
atti alla Corte costituzionale per la relativa decisione.
Con ordinanza 19.4.2007 n. 130 la Corte dichiarava manifestamente inammissibile
la sollevata questione di costituzionalità, “in quanto il r.d. n. 2537 del 1925
ha natura regolamentare e, come tale, è sottratto al giudizio di legittimità
costituzionale”.
Restituiti gli atti al Tribunale, la causa, ove le parti depositavano memorie
ribadendo le rispettive conclusioni, è passata in decisione all’udienza del 31
ottobre 2007, previa ampia ed articolata discussione.
DIRITTO
Dal richiamato pronunciamento 5.4.2004 della Corte di giustizia si deve, dunque,
desumere che l’art. 52, II comma del RD n. 2537/25 non è incompatibile con la
direttiva comunitaria n. 384/85, in quanto questa non si propone di disciplinare
le condizioni di accesso alla professione di architetto né di definire la natura
delle attività svolte da chi esercita tale professione, ma soltanto di garantire
“il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei
certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi
e quantitativi minimi in materia di formazione allo scopo di agevolare
l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei
servizi per le attività del settore dell’architettura”.
La direttiva, cioè, non obbliga a porre i diplomi di laurea in architettura ed
in ingegneria civile indicati all’art. 11 su un piano di perfetta parità ai fini
dell’accesso alla professione di architetto in Italia, ma, in coerenza con il
principio di non discriminazione tra Stati membri, impone soltanto di non
escludere da tale accesso in Italia coloro che siano in possesso di un diploma
di ingegneria civile o di un titolo analogo rilasciato da un altro Stato membro.
Contestualmente, peraltro, la Corte ammette che dal divieto, per gli ingegneri
civili che hanno conseguito il titolo in Italia, di accedere all’attività di cui
all’art. 52 del RD n. 2537/25, ancorché irrilevante nell’ambito comunitario,
possa derivare una discriminazione al rovescio (“è vero che…ne può derivare una
discriminazione alla rovescia, poiché gli ingegneri civili che hanno conseguito
i loro titoli in Italia non hanno accesso, in tale Stato membro, all’attività di
cui all’art. 52, II comma del Regio decreto n. 2537/25, mentre tale accesso non
può essere negato alle persone in possesso di un diploma di ingegnere civile o
di un titolo analogo rilasciato in un altro Stato membro, qualora tale titolo
sia menzionato nell’elenco redatto ai sensi dell’art. 7 della direttiva 85/384 o
in quello di cui all’art. 11 della detta direttiva”), ma risolve il problema
assumendo che si tratta di una questione puramente interna all’ordinamento
italiano, talchè non emerge un contrasto rilevante con la fonte soprannazionale
né con il principio di parità di trattamento da applicarsi ai professionisti
migranti di altri Stati membri.
In una situazione del genere – prosegue la Corte -, ove cioè l’ingegnere civile
che ha conseguito il titolo abilitativo in Italia si vede interdire la
realizzazione di lavori su immobili di interesse storico artistico sottoposti a
vincolo, “spetta al giudice nazionale stabilire se vi sia una discriminazione
vietata dal diritto nazionale e, se del caso, decidere come essa debba essere
eliminata”.
La disparità di trattamento attuata all’interno dell’ordinamento italiano
dall’art. 52 del RD n. 2537/25 è, dunque, evidente, atteso che agli ingegneri
civili che hanno conseguito il diploma di laurea in Italia è impedito l’accesso
ad attività professionali che l’Amministrazione statuale non può, invece,
vietare agli ingegneri civili (o possessori di titoli analoghi) che hanno
ottenuto il titolo in altri Stati membri.
La discriminazione, peraltro, è certamente ingiusta ed irragionevole, in quanto
interdicendo ai cittadini italiani lo svolgimento di attività consentite a
cittadini comunitari muniti del medesimo titolo professionale, si disciplinano
in modo diverso situazioni identiche, senza che la differenziazione sia
oggettivamente giustificabile.
L’art. 52 del RD n. 2537/25 – che la Corte costituzionale ha affermato aver
natura regolamentare - viola, dunque, il principio di uguaglianza sancito
dall’art. 3 della Costituzione: tale constatazione è sufficiente per accogliere
il ricorso ed annullare l’impugnato provvedimento, previa disapplicazione della
richiamata norma. Nel caso di conflitto tra fonte primaria ed atto di normazione
secondaria, invero, la norma di rango inferiore, anche se non impugnata, deve
considerarsi, in conformità con il principio di gerarchia delle fonti, recessiva
e, quindi, inapplicabile come regola di giudizio (cfr., da ultimo, CdS, V,
25.9.2006 n. 5625; TAR Milano, 18.7.2007 n. 5424).
Ma la disapplicazione dell’art. 52 del RD n. 2537/25 trova fondamento e
giustificazione anche nel contrasto della norma nazionale con la normativa
europea.
La norma in questione, limitando l’attività degli ingegneri che abbiano
conseguito il titolo in Italia attraverso un percorso formativo analogo a quello
degli architetti, contrasta palesemente con il principio comunitario (recepito
dall’Italia con il DLgs n. 129/92) che, espresso dalla direttiva n. 384/85,
stabilisce la equiordinazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere
civile ed architetto: né tale conclusione si pone in contrasto con la funzione
della direttiva stessa affermata dalla Corte di giustizia, ma, anzi, ne è
coerente conseguenza, perché se è vero che tale direttiva opera sul piano
comunitario, ove è preordinata a garantire il reciproco riconoscimento dei
titoli equipollenti da parte dei Paesi membri, è altresì vero che tale
riconoscimento viene concretamente attuato, sullo stesso piano comunitario,
affermando, fra l’altro, che il diploma di laurea (rilasciato dall’Università
italiana) individuato ai sensi dell’art. 11, I comma, lett. f) è equipollente
con i titoli degli altri Stati membri che consentono l’accesso alla professione
di architetto in Italia.
In altre parole, nel momento in cui la normativa europea afferma che l’ingegnere
civile laureatosi in Italia può svolgere l’attività propria dell’architetto in
tutta l’Europa, ma (in virtù di una norma interna) non in Italia, si offre al
giudice italiano un parametro normativo per un giudizio di disapplicazione della
norma interna contrastante con quella europea.
È evidente l’arbitraria discriminazione a danno degli ingegneri civili italiani
operata dalla norma in esame, i quali, equiparati agli ingegneri civili ed agli
architetti europei dalla normativa comunitaria, possono esercitare, diversamente
da questi ultimi, l’attività professionale riservata ai titolari di diploma di
architetto in tutta l’Europa, ma non in Italia: discriminazione che, trovando
causa nel contrasto tra la normativa nazionale e il diritto comunitario, va
risolta con la disapplicazione della disciplina interna e la conseguente
invalidità degli atti applicativi.
La giurisprudenza costituzionale, invero, ha da tempo chiarito che il divieto di
discriminazione è espressione specifica del principio generale di uguaglianza,
il quale impone che situazioni omogenee non vengano trattate in modo diverso, a
meno che una differenziazione non sia oggettivamente giustificata (cfr. tra le
altre, con riferimento al diritto comunitario, Corte cost. 30.12.1997 n. 443).
Tale principio opera anche come istanza di adeguamento del diritto interno ai
principi comunitari: conseguentemente, nel giudizio sul rispetto del principio
costituzionale di uguaglianza ex art. 3 Cost., non possono essere ignorati gli
effetti discriminatori che l’applicazione del diritto comunitario è in grado di
provocare.
Ma c’è di più.
L’art. 52, II comma del RD n. 2537/25 contrasta anche con il principio di parità
introdotto dall’art. 2, I comma, lett. h) della legge comunitaria 2004 (legge
18.4.2005 n. 62), secondo cui i decreti legislativi che il legislatore nazionale
dovrà emanare per dare attuazione alle direttive comunitarie comprese negli
elenchi di cui agli allegati A e B “assicurano che sia garantita una effettiva
parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati
membri dell’Unione europea, facendo in modo di assicurare il massimo livello di
armonizzazione possibile tra le legislazioni interne dei vari Stati membri ed
evitando l’insorgere di situazioni discriminatorie a danno dei cittadini
italiani nel momento in cui gli stessi sono tenuti a rispettare, con particolare
riferimento ai requisiti richiesti per l’esercizio di attività commerciali e
professionali, una disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini
degli altri Stati membri”: tale principio, pur contenuto in una norma
particolare (relativa all’emanazione dei decreti legislativi di attuazione di
specifiche direttive comunitarie), deve ritenersi di applicazione generale,
perchè diversamente si creerebbe una disparità di trattamento contraddittoria
con la stessa ratio del principio.
Per le considerazioni che precedono, dunque, il ricorso è fondato e va accolto,
con conseguente annullamento dell’atto impugnato, previa disapplicazione della
norma nazionale contrastante.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Seconda Sezione,
definitivamente pronunciando sul ricorso in premessa, lo accoglie e, per
l’effetto, annulla l’impugnato provvedimento previa disapplicazione dell’art.
52, II comma del RD 23.10.1925 n. 2537.
Compensa le spese e competenze del giudizio fra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Venezia, in Camera di Consiglio, il 31 ottobre 2007.
Il Presidente
L’Estensore
Il Segretario
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