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CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. V, 23/01/2008
(UD.31/10/2007), Sentenza n. 3557
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Atto pubblico - Falsità ideologica - Relazione di
servizio di un agente di p.g. - “Nemo tenetur se detegere” - Irrilevanza
- Art. 479 c.p. - Fattispecie. La relazione di servizio dell’agente di
polizia giudiziaria (nella specie, un appartenente al Corpo della Guardia di
Finanza), anche quando è redatta in riferimento ad un episodio accaduto fuori
dell’ordinario orario di servizio è atto pubblico fidefaciente (i militari
appartenenti alla Guardia di Finanza debbono essere considerati sempre in
servizio , non cessando dalla loro qualità di pubblici ufficiali anche quando
non sono comandati in servizio, così Cass. Pen. 5/02/2003, Scaramuccia, in CED
Cass. N. 224049 a proposito di appartenenti all'Arma dei Carabinieri). Pertanto,
ipotizzabili falsità del suo contenuto sono penalmente rilevanti senza che possa
essere invocato, quale esimente, la regola del nemo tenetur se detegere
per avere l’autore attestato il falso al fine di non fare emergere la sua penale
responsabilità in riferimento all’episodio oggetto della relazione di servizio.
Pres. E. Fazzioli, Rel. G. Marasca, Ric. D’Alba. CORTE DI CASSAZIONE Penale,
Sez. V, 23/01/2008 (UD.31/10/2007), Sentenza n. 3557
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Atto pubblico - Delitto di falso ideologico -
Relazione di servizio di un agente di p.g. - Art. 479 c.p.. Non è possibile
affermare che la relazione di servizio di un agente di p.g. costituisca una
mera comunicazione interna trattandosi, invece, di un atto pubblico, cosicché se
vi è immutatio veri è ravvisabile il delitto di falso di cui all'articolo
479 c.p., reato che è stato contestato nel caso di specie e che è certamente
ravvisabile tenuto conto di quanto sul punto precisato dai giudici di merito e
di quanto si dirà in seguito. Al pari degli agenti di polizia e dei Carabinieri,
anche se in congedo, in vacanza, in ferie o semplicemente liberi da impegni di
ufficio per fine del servizio (vedi Cass., Sez. I, 11 maggio 1971 - 30 settembre
1971, n. 452, in CPMA, 1972), hanno sempre il dovere di compiere gli atti
compresi nel generico dovere di cooperare nel modo più efficace al conseguimento
degli scopi del proprio ufficio, come quello, ad esempio, di sedare una lite,
come è accaduto nel caso di specie (Cass. 18 novembre 1982, Miele, in CP 84,
557). Pres. E. Fazzioli, Rel. G. Marasca, Ric. D’Alba. CORTE DI CASSAZIONE
Penale, Sez. V, 23/01/2008 (UD.31/10/2007), Sentenza n. 3557
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UDIENZA del
SENTENZA N.
REG. GENERALE N.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Omissis
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Cassazione osserva :
D'Alba Nicola, guardia di finanza, veniva condannato nei due gradi di merito -
sentenze del Tribunale di Viterbo, Sezione distaccata di Montefiascone, del 3
giugno 2003 e della Corte di Appello di Roma del 9 gennaio 2007 - anche al
risarcimento dei danni, con provvisionale alla parte civile costituita, per i
delitti di lesioni e minaccia in danno di Cozzolino Giovanni, perché all'uscita
di una discoteca colpiva la parte lesa con schiaffi in faccia e con il calcio e
la canna della pistola alla testa ed alla fronte, e di falso perché nella
relazione di servizio inoltrata al suo comando riferiva fatti contrari al vero.
L'affermazione di responsabilità dell'imputato era fondata sulle dichiarazioni
della parte lesa e su quelle di testimoni oculari, Vitali Danilo, sottufficiale
dell'Esercito e Fabbri Domenico, agente della Polizia Penitenziaria, nonché
sugli esiti della espletata perizia medico - legale.
Con il ricorso per cassazione D'Alba Nicola deduceva la violazione di legge in
ordine alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'articolo 479c.p. perché il
D'Alba il 24 giugno 2006 - rectius 2000 - non era in servizio trovandosi
presso la discoteca Il Faro di Montefiascone come privato cittadino e perché di
conseguenza la cd relazione di servizio altro non era che una mera comunicazione
interna.
Il motivo di impugnazione è infondato perché i militari appartenenti alla
Guardia di Finanza debbono essere considerati sempre in servizio, non cessando
dalla loro qualità di pubblici ufficiali anche quando non sono comandati in
servizio (così Cass. Pen. 5 febbraio 2003, Scaramuccia, in CED Cass. N. 224049 a
proposito di appartenenti all'Arma dei Carabinieri).
Essi, infatti, al pari degli agenti di polizia e dei Carabinieri, anche se in
congedo, in vacanza, in ferie o semplicemente liberi da impegni di ufficio per
fine del servizio ( vedi Cass., Sez. I, 11 maggio 1971 - 30 settembre 1971, n.
452, in CPMA, 1972), hanno sempre il dovere di compiere gli atti compresi nel
generico dovere di cooperare nel modo più efficace al conseguimento degli scopi
del proprio ufficio, come quello, ad esempio, di sedare una lite, come è
accaduto nel caso di specie ( Cass. 18 novembre 1982, Miele, in CP 84, 557).
Non sono stati indicati dal ricorrente argomenti che possano indurre a mutare
siffatto consolidato indirizzo, valido anche nei confronti dei finanzieri,
avendo la Suprema Corte sin dal lontano 1954 affermato che la guardia di finanza
in licenza non cessa di essere pubblico ufficiale ( Cass. 14 gennaio 1954,
Pappalepore, in GP, 54, II, 587).
La soluzione adottata consente di risolvere agevolmente anche il secondo
problema posto concernente la natura della relazione di servizio.
Dal momento che il finanziere è considerato sempre in servizio non vi è dubbio
che le relazioni di servizio siano atti pubblici fidefacienti ( così Cass., Sez.
V penale, 18 settembre 1991, depositata il 29 novembre 1991, n. 12065, in CP 93,
303 ). con esse, infatti, il pubblico ufficiale attesta una certa attività da
lui espletata, ovvero che determinate circostanze sono cadute sotto la sua
diretta percezione e vengono così rievocate ( Cass., Sez. V penale, 7 febbraio
1992 16 marzo 1992, n. 2889, in CP 93, 1430. vedi anche Cass., Sez. V penale, 15
ottobre 2004, Liggi, a proposito della relazione di servizio di un agente di
polizia stradale).
In virtù di tale indirizzo giurisprudenziale non è possibile affermare, come ha
fatto il ricorrente, che la relazione di servizio costituisce una mera
comunicazione interna trattandosi, invece, di un atto pubblico. cosicché se vi è
immutatio veri è ravvisabile il delitto di falso di cui all'articolo 479
c.p., reato che è stato contestato nel caso di specie e che è certamente
ravvisabile tenuto conto di quanto sul punto precisato dai giudici di merito e
di quanto si dirà in seguito.
Né appare possibile in siffatta situazione invocare il principio del nemo
tenetur se detegere. In effetti posto che la relazione di servizio di un
pubblico ufficiale è, come già detto, atto pubblico per il quale si configura,
in caso di falsità ideologica, il reato di cui all'articolo 479c.p., deve
escludersi che la rilevanza penale del fatto possa venir meno in applicazione
del principio nemo tenetur se detegere, posto che la finalità dell'atto
pubblico, da individuarsi nella veridicità erga omnes di quanto attestato dal
pubblico ufficiale, non può essere sacrificata all'interesse del singolo di
sottrarsi ai rigori della legge penale (così Cass., Sez. V penale, 15 ottobre
2004 - 16 giugno 2005, Liggi, citata).
D'altra parte l'imputato aveva la scelta di rifiutarsi di redigere l'atto
pubblico de quo, senza incorrere nel reato di cui all'articolo 328 comma
I c.p., che presuppone il carattere indebito del rifiuto, facendo venir meno la
inevitabilità del nocumento derivante da una relazione di servizio veritiera.
Con un secondo motivo di impugnazione il ricorrente ha dedotto la mancanza e
manifesta illogicità della motivazione in relazione alle prove testimoniali
favorevoli all'imputato.
Il motivo di impugnazione si risolve in inammissibili censure di merito della
decisione impugnata.
La motivazione impugnata è, infatti, corretta, dal momento che i giudici del
merito hanno dato atto di avere esaminato tutte le prove testimoniali assunte e
tutti i documenti acquisiti successivamente hanno esposto in modo del tutto
ragionevole in base a quali elementi erano pervenuti alla affermazione di
responsabilità dell'imputato.
Del resto la motivazione dei provvedimenti giudiziari assolve esattamente al
compito di rendere edotti gli interessati delle ragioni che hanno determinato il
convincimento del giudice.
Secondo il costante indirizzo della Suprema Corte, infatti, nella motivazione
della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere una analisi
approfondita di tutte le deduzioni di parte e a prendere in esame
dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo, invece, sufficiente
che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze
spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo
convincimento, dimostrando di avere tenuto presente ogni fatto decisivo,
dovendosi in ipotesi siffatte considerarsi implicitamente disattese le deduzioni
difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente
incompatibili con la decisione adottata ( vedi Cass. 10 novembre 2000, Gianfreda,
in CP 02, 732 e Cass., Sez. IV, 24 ottobre 2005 - 13 gennaio 2006, n. 1149, in
CED 233187).
Ebbene i giudici di merito hanno rispettato tali principi ed hanno spiegato con
il dovuto approfondimento tutte le ragioni che militavano per una condanna del
D'Alba, fondata in particolare, come già detto, sulle testimonianze
assolutamente indifferenti del Vitali, sottufficiale dell'Esercito, e del
Fabbri, agente della Polizia Penitenziaria.
Naturalmente non è possibile richiedere in sede di legittimità una rivalutazione
delle prove assunte, essendo tale compito demandato in via esclusiva ai giudici
dei primi due gradi di giurisdizione.
Ad analoghe considerazioni si deve pervenire per quanto concerne la valutazione
della perizia tecnica compiuta dai giudici di merito.
Questi ultimi hanno ragionevolmente spiegato che dalla perizia risultava che le
lesioni riscontrate sulla parte lesa erano compatibili con il tipo di corpo
contundente utilizzato dal D'Alba.
Il ricorrente non può in sede di legittimità proporre al Collegio l'esame e la
valutazione di una consulenza tecnica di parte che, a suo dire, contrasterebbe
le conclusioni del consulente di ufficio.
Trattasi di censure di merito inammissibili in sede di legittimità.
Le ragioni indicate impongono il rigetto del ricorso e la condanna del
ricorrente a pagare le spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese
processuali.
Così deliberato in Camera di consiglio, in Roma, in data 31 ottobre 2007
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