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T.A.R. EMILIA
ROMAGNA, Parma- 1 Aprile 2008, n. 206
RIFIUTI - D. lgs. n. 22/97 - Impianti mobili - Regime autorizzatorio
semplificato ex art. 28, c. 7 - Generali canoni di disciplina della gestione di
rifiuti ex art. 2 - Prescrizioni relative all’attività del gestore dell’impianto
- Legittimità. Gli impianti mobili di smaltimento o di recupero beneficiano
del regime autorizzatorio semplificato di cui all’art. 28, c. 7 del d.lgs. n.
22/97, in ragione del tenue e transitorio impatto con l’ambiente, essendo essi
“mobili” in senso funzionale, e cioè non solo agevolmente amovibili ma anche
connotati da un rapporto di precarietà, quindi delimitato temporalmente, con
l’area su cui vengono installati, in corrispondenza delle c.d. «campagne di
attività», che consistono sostanzialmente in programmi di lavoro con cui
l’impresa che gestisce l’impianto comunica alla competente Amministrazione
l’entità (in termini di qualità e quantità della produzione) e la durata
dell’utilizzazione del sito da parte dei macchinari impiegati per l’attività di
trattamento dei rifiuti. Peraltro, l’autorizzazione all’uso dell’impianto
mobile, costituendo una «species» del «genus» dell’autorizzazione all’esercizio
delle operazioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti prevista dall’art. 28,
comma 1, deve tenere conto dei generali canoni di disciplina della gestione dei
rifiuti indicati dall’art. 2 del d.lgs. n. 22 del 1997 ed informarvi il proprio
contenuto, anche a mezzo di prescrizioni utili a fissare limiti e condizioni
all’attività di trattamento dei rifiuti oggetto del titolo abilitativo; il che
implica che l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto mobile non riguarda
solo le attrezzature tecniche in sé, ma si estende ad ogni aspetto dell’attività
di trattamento dei rifiuti suscettibile di incidere sui beni rimessi alla cura
dell’Amministrazione pubblica, quali regolati dalla disciplina della materia.
Pertanto, l’autorizzazione di cui all’art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 22 del
1997 ben può contenere prescrizioni che regolino l’attività del gestore
dell’impianto mobile, in coerenza con i principi di cui al precedente art. 2 e
nel rispetto della normativa tecnica di settore. Pres. Papiano, Est. Caso -
M.s.r.l. (avv.ti Capra, Cappellini, Capra e Ferrari) c. Provincia di Piacenza
(avv. Silva) e A.R.P.A. Emilia Romagna (avv. Fantini). T.A.R. EMILIA ROMAGNA,
Parma- 1 aprile 2008, n. 206
RIFIUTI - D. lgs. n. 22/97 - Impianti mobili - Autorizzazione ex art. 28, c.
7 - Stadi intermedi dell’attività di smaltimento o recupero - Necessità di
separata autorizzazione - Esclusione. L’autorizzazione di cui all’art. 28,
comma 7, del d.lgs. n. 22 del 1997 include l’intero ciclo di trattamento dei
rifiuti di pertinenza dell’impianto mobile (escluse ovviamente, se ve ne sono,
le autonome fasi di lavorazione anteriori o successive), sicché l’eventualità
che gli stadi intermedi dell’attività si risolvano in operazioni soggette, in
via ordinaria, ad un’autorizzazione ex art. 28, comma 1, non sdoppia l’iter in
più separati procedimenti né dà luogo a distinti titoli abilitativi né ancora si
determina per ciò solo la preclusione al rilascio dell’autorizzazione
relativamente all’impianto mobile, per essere quello di cui al comma 7
assorbente dei titoli abilitativi di cui al comma 1, previa naturalmente
l’adozione di tutte le prescrizioni allo scopo necessarie. Pres. Papiano, Est.
Caso - M.s.r.l. (avv.ti Capra, Cappellini, Capra e Ferrari) c. Provincia di
Piacenza (avv. Silva) e A.R.P.A. Emilia Romagna (avv. Fantini). T.A.R. EMILIA
ROMAGNA, Parma - 01/04/2008, n. 206
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N. 00206/2008 REG.SEN.
N. 00295/2005 REG.RIC.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna sezione staccata di
Parma (Sezione Prima) ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso n. 295 del 2005 proposto da M.C.M. Ecosistemi S.r.l., in persona del
legale rappresentante p.t., difesa e rappresentata dall’avv. Maria Cristina
Capra, dall’avv. Elisa Cappellini, dall’avv. Domenico Capra e dall’avv. Giorgio
Ferrari, e presso quest’ultimo elettivamente domiciliata in Parma, borgo Riccio
da Parma n. 27;
contro
la Provincia di Piacenza, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa
dall’avv. Vittorio Silva ed elettivamente domiciliata in Parma, piazza Garibaldi
n. 17, presso lo studio dell’avv. Eugenia Monegatti;
l’A.R.P.A. - Agenzia Regionale Prevenzione e Ambiente dell’Emilia-Romagna, in
persona del Direttore generale p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Giovanni
Fantini ed elettivamente domiciliata in Parma, via Mistrali n. 4, presso lo
studio dell’avv. Annalisa Molinari;
e con l'intervento di
Regione Emilia-Romagna, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa
dall’avv. Franco Mastragostino e dall’avv. Maria Chiara Lista, ed elettivamente
domiciliata in Parma, piazza Garibaldi n. 17, presso lo studio dell’avv. Eugenia
Monegatti;
per l'annullamento
del provvedimento prot. n. 50368 del 1° giugno 2005, a firma del Dirigente del
Servizio Valorizzazione e tutela dell’ambiente, con cui la Provincia di Piacenza
- Area “Programmazione infrastrutture ambiente” ha respinto la richiesta di
rilascio di un’autorizzazione alla gestione di un impianto mobile per il
trattamento di rifiuti speciali;
- quanto ai “motivi aggiunti” depositati il 7 dicembre 2005 - del provvedimento
prot. n. 70076 del 10 agosto 2005, a firma del Dirigente del Servizio
Valorizzazione e tutela dell’ambiente, con cui la Provincia di Piacenza - Area
“Programmazione infrastrutture ambiente” ha escluso la sussistenza dei
presupposti per il ritiro dell’atto precedente ed ha indicato ulteriori ragioni
ostative al rilascio dell’invocata autorizzazione;
per la condanna
dell’Amministrazione al risarcimento dei danni.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di “motivi aggiunti” depositato il 7 dicembre 2005;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Provincia di Piacenza e dell’A.R.P.A.
dell’Emilia-Romagna;
Visto l’atto di intervento “ad opponendum” della Regione Emilia-Romagna;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Nominato relatore il dott. Italo Caso;
Uditi, per le parti, alla pubblica udienza del 19 febbraio 2008 i difensori come
specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Riferisce la società ricorrente che essa è impresa operante nel settore
ambientale, e che nel territorio provinciale di Piacenza si è in particolare
dedicata ad attività di recupero di rifiuti attraverso il ripristino ambientale
di diversi siti dissestati; che nel maggio 2005 essa chiedeva alla Provincia di
Piacenza l’autorizzazione alla realizzazione di un impianto mobile finalizzato
al trattamento dei rifiuti e alla lavorazione per la produzione di “terre
ricostituite”, ai sensi dell’art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 22 del 1997; che si
intendeva in tale modo fare salve le distinte autorizzazioni che la legge
richiede per ciascuna campagna di utilizzo dell’impianto, in quella sede dovendo
essere poi verificata, caso per caso, la liceità dell’uso dell’impianto rispetto
a materiali specificamente individuati; che l’istanza veniva tuttavia rigettata
(v. provvedimento prot. n. 50368 del 1° giugno 2005, a firma del Dirigente del
Servizio Valorizzazione e tutela dell’ambiente della Provincia di Piacenza, Area
“Programmazione infrastrutture ambiente”).
Avverso il diniego di autorizzazione ha proposto impugnativa la ricorrente,
deducendo:
1) Violazione degli artt. 3, 4 e 5 della legge reg. n. 44/95; dell’accordo di
programma 10 dicembre 2001, punti 1 - 2 - 3 (in relazione alla legge reg. n.
44/95 e all’art. 15 della legge n. 241/90).
L’Amministrazione provinciale ha provveduto sull’istanza della ricorrente senza
svolgere alcuna specifica istruttoria e senza coinvolgere altri organi o enti,
neppure l’Agenzia Regionale Prevenzione e Ambiente dell’Emilia-Romagna. In
realtà, dalla normativa nazionale e regionale, quale individuata in epigrafe,
emerge con chiarezza la regola per cui in simili casi non si può prescindere
dall’ausilio tecnico dell’A.R.P.A.
2) Eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti,
disparità di trattamento, contraddittorietà estrinseca.
La necessità della consultazione dell’A.R.P.A. emerge anche dalla circostanza
che le precedenti autorizzazioni ottenute dalla ricorrente avevano sempre visto
coinvolto detto organismo. Peraltro, anche a ritenere del tutto discrezionale
l’acquisizione di un simile parere, non si comprendono le ragioni per le quali
nel caso di specie si sia fatta una tale scelta.
3) Violazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 22/97, degli artt. 10 e 13 del t.u.
edilizia. Eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e
di motivazione, illogicità manifesta.
Uno dei motivi di diniego è fondato sulla considerazione che le lastre di
cemento di cui si compone l’impianto determinerebbero la trasformazione del
territorio, e quindi renderebbero necessario un permesso di costruire, o
comunque evidenzierebbero che l’impianto non ha natura mobile. Il che è frutto
di un’errata istruttoria, oltre che di una non corretta applicazione della
normativa in epigrafe, tenuto conto della mancanza di un manufatto da ancorare
al suolo e dell’uso solo temporaneo dell’impianto.
4) Violazione degli artt. 6 e 28 del d.lgs. n. 22/97, dei d.m. 5 febbraio 1998 e
n. 161 del 2002. Eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di
istruttoria e di motivazione.
Un altro dei motivi di diniego muove dall’assunto per cui l’appoggio del
materiale trattato sulle lastre di cemento integrerebbe uno “stoccaggio” dei
rifiuti, asseritamente incompatibile con un impianto mobile. Sennonché, non è
vero che nella circostanza si verificherebbe una forma di riserva o di deposito
preliminare dei materiali, né è corretto dire che la normativa vieta lo
stoccaggio dei rifiuti negli impianti mobili.
5) Violazione dell’art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 22/97. Eccesso di potere per
illogicità manifesta, travisamento dei fatti, difetto di motivazione,
contraddittorietà intrinseca.
Un terzo motivo di diniego è fondato sulla non autorizzabilità della benna
miscelatrice, perché priva di autonomia funzionale. Ma tale considerazione è
incomprensibile e illogica, ed è il risultato di un travisamento dei fatti, non
essendosi ben compreso, tra l’altro, che l’autorizzazione è stata richiesta per
l’intero impianto, non per le singole sue parti, da sole inidonee ad assolvere
la funzione di trattamento dei rifiuti.
6) Violazione degli artt. 6, 27, 28 e 33 del d.lgs. n. 22/97, nonché del d.m. 5
febbraio 1998. Eccesso di potere per illogicità manifesta, travisamento dei
fatti, difetto di motivazione.
Nel terzo motivo di diniego si fa anche riferimento alla circostanza che la
benna miscelatrice non sarebbe specificamente prodotta per il trattamento dei
rifiuti. Ma l’astratta possibilità che l’impianto sia idoneo anche ad altri
scopi non costituisce elemento significativo ai nostri fini, non derivando una
preclusione in tal senso dalla normativa in materia.
7) Violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/90.
Il rigetto dell’istanza non è stato preceduto dalla comunicazione dei motivi
ostativi al rilascio dell’autorizzazione, con conseguente violazione dell’art.
10-bis della legge n. 241/90.
Conclude dunque la società ricorrente per l’annullamento dell’atto impugnato e
per il risarcimento dei danni subiti.
Si è costituita in giudizio la Provincia di Piacenza, resistendo al gravame.
Ha spiegato intervento “ad opponendum” la Regione Emilia-Romagna.
L’istanza cautelare della ricorrente veniva respinta dalla Sezione alla Camera
di Consiglio del 6 settembre 2005 (ord. n. 267/2005).
Nel frattempo, proposta dall’interessata una richiesta di ritiro dell’atto
impugnato, l’Amministrazione provinciale riesaminava la questione e concludeva
per il rigetto dell’istanza, anche alla luce di ulteriori motivi ostativi al
rilascio dell’autorizzazione (v. provvedimento prot. n. 70076 del 10 agosto
2005, a firma del Dirigente del Servizio Valorizzazione e tutela dell’ambiente,
Area “Programmazione infrastrutture ambiente”).
Avvero il nuovo atto proponeva “motivi aggiunti” (depositati il 7 dicembre 2005)
la società ricorrente, deducendo:
1) Violazione delle direttive 75/442/CEE (art. 2) e 91/689/CEE (art. 2); del
d.lgs. n. 22/97 (artt. 2, 6, 7 e 9); del d.m. 5 febbraio 1998 (art. 5); del
d.lgs. n. 36/2003 (artt. 1, 2, 3 e 6). Eccesso di potere per travisamento dei
fatti, difetto di istruttoria e di motivazione, contraddittorietà intrinseca ed
estrinseca.
Erroneamente l’Amministrazione provinciale assume esistente nell’ordinamento un
generalizzato e indiscriminato divieto di miscelazione dei rifiuti non
pericolosi con materie prime (salvo il solo caso in cui la miscelazione possa
produrre particolari benefici per l’ambiente), non rinvenendosi in realtà una
simile preclusione nella normativa indicata in epigrafe, che stabilisce
piuttosto per quali tipi di rifiuti e per quali operazioni di trattamento la
miscelazione tra rifiuti non pericolosi ed altre sostanze è consentita, vietata
o necessaria, ed al ricorrere di quali condizioni. In ogni caso, il progetto
presentato dalla ricorrente, per le operazioni di recupero ivi previste,
realizza quei risultati di beneficio per l’ambiente che l’Amministrazione
considera presupposto legittimante la miscelazione dei rifiuti con altre
materiali. Infine, le autorizzazioni rilasciate negli scorsi anni alla
ricorrente per attività di recupero ambientale non hanno mai vietato la
miscelazione di rifiuti di diversa tipologia, e ciò evidenzia la
contraddittorietà del diniego con le precedenti determinazioni
dell’Amministrazione provinciale.
2) Eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e di
motivazione. Violazione degli artt. 6 e 28 del d.lgs. n. 22/97; dei d.m. 5
febbraio 1998 e n. 161 del 2002. Eccesso di potere per illogicità,
contraddittorietà intrinseca ed estrinseca.
Alla base del diniego di autorizzazione è anche la considerazione che l’impianto
sarebbe inidoneo alla messa in riserva dei rifiuti, ma non si è tenuto conto
della circostanza che la legge non esclude che l’impianto possa servire soltanto
ad una singola fase della lavorazione dei materiali, salvo verificare nelle
varie campagne, di volta in volta, l’adeguatezza dell’impianto e l’eventuale
necessità di attrezzature ulteriori. Inoltre, l’Amministrazione provinciale nega
che l’attività di messa in riserva abbia carattere di mobilità e ne richiede
un’autorizzazione ordinaria, così però contraddittoriamente non ammettendo la
stessa ammissibilità dell’impianto mobile, che mai potrebbe in tal modo
conseguire il relativo titolo abilitativo. Né v’è ragione per ritenere che i
rifiuti debbano essere stoccati, ai fini delle analisi, proprio nel sito nel
quale essi saranno successivamente trattati, alcuna norma di legge inducendo a
tale conclusione, e neppure giustificandola le regole della buona tecnica,
avendo peraltro l’Amministrazione anche travisato il contenuto del progetto
della ricorrente quanto all’intenzione di non trattare rifiuti che non siano
stati preventivamente autorizzati, oltre a porsi in sostanziale contraddizione
le sue determinazioni con quanto disposto in sede di rilascio delle precedenti
autorizzazioni. In realtà, la ricorrente aveva anche espresso la sua
disponibilità ad una modificazione progettuale che consentisse la messa in
riserva provvisoria dei materiali destinati alla lavorazione, e ciò a mezzo di
una proposta sufficientemente precisa e concreta, ma l’Amministrazione ha
ingiustificatamente opposto la carenza di un puntuale progetto, ed erronee o
comunque immotivate appaiono le considerazioni critiche dell’ARPA circa la
soluzione tecnica prospettata.
3) Eccesso di potere per difetto di motivazione, travisamento dei fatti, difetto
di istruttoria, illogicità, disparità di trattamento, contraddittorietà
intrinseca. Violazione del d.lgs. n. 22/97 (art. 28, comma 7; all. C, punto R10)
e del d.m. 5 febbraio 1998 (art. 5).
Quanto all’asserita necessità che il progetto contempli “un’area adeguatamente
pavimentata e regimata per la gestione e la movimentazione dei materiali
mediante benna pesatrice e miscelatrice-disgregatrice”, si deduce
l’insufficienza della motivazione (per la genericità delle indicazioni fornite),
il travisamento dei fatti (per essere richiamate operazioni svolte all’interno o
all’esterno di un “silos”, in realtà non previsto nel progetto), l’errata o
incompleta valutazione del progetto (per non essersi tenuto conto della
circostanza che ogni fase di lavorazione esclude il contatto dei rifiuti con il
suolo, e comunque per non essere stata indicata la ragione dell’eventuale
inadeguatezza delle misure apprestate), la violazione della normativa in materia
e l’illogicità delle conclusioni (ove si richieda un’apposita pavimentazione
delle aree interessate all’attività dell’impianto mobile), la contraddittorietà
e l’insufficienza della motivazione (nella parte in cui non si tiene conto della
proposta formulata dalla ricorrente con la lettera del 9 agosto 2005).
4) Violazione dell’art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 22/97. Eccesso di potere per
illogicità manifesta, travisamento dei fatti, difetto di motivazione,
contraddittorietà intrinseca.
Quanto alla non autorizzabilità della benna miscelatrice perché priva di
autonomia funzionale (questione già esaminata con il ricorso originario),
l’Amministrazione insiste sul suo assunto, motivandolo ora anche con la
considerazione che i vari componenti di un impianto sottendono un necessario
collegamento fisico-meccanico, che nella fattispecie mancherebbe. Il che rivela
un’errata interpretazione della normativa, una insufficiente motivazione, una
non corretta valutazione del progetto della ricorrente.
5) Violazione degli artt. 3, 4 e 5 della legge reg. n. 44/95; dell’accordo di
programma 10 dicembre 2001, punti 1 - 2 - 3; degli artt. 10-bis e 15 della legge
n. 241/90.
L’Amministrazione si è pronunciata per la correttezza della scelta di
prescindere dal parere dell’ARPA relativamente a determinazioni che non
implicavano valutazioni tecniche; ma quando la legge prevede un parere
obbligatorio, non se ne può mai fare a meno, anche per l’evidente intreccio tra
profili tecnici e profili giuridici, evidenziatosi del resto nel caso di specie.
Né i vizi formali del primo atto (a suo tempo dedotti dalla ricorrente) devono
ritenersi sanati dal nuovo provvedimento - immune da quei profili di
illegittimità -, avendo l’Amministrazione espressamente negato il ritiro del
diniego originario, che dunque conserva intatta la sua efficacia ed anche i suoi
vizi.
Di qui la richiesta di annullamento degli atti impugnati e di condanna
dell’Amministrazione al risarcimento dei danni.
Si è costituita in giudizio l’A.R.P.A. dell’Emilia-Romagna, resistendo al
gravame. Hanno insistito per il rigetto del ricorso anche la Provincia di
Piacenza e la Regione Emilia-Romagna, già parti della controversia.
L’istanza cautelare della ricorrente veniva accolta dalla Sezione alla Camera di
Consiglio del 20 dicembre 2005 (ord. n. 347/2005).
All’udienza del 19 febbraio 2008, ascoltati i rappresentanti delle parti, la
causa è passata in decisione.
DIRITTO
La controversia ha ad oggetto il diniego di autorizzazione all’esercizio di un
impianto mobile finalizzato al trattamento di rifiuti speciali non pericolosi
per la produzione di “terre ricostituite”, titolo abilitativo invocato dalla
ricorrente ai sensi dell’art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 22 del 1997. Anche a
mezzo di “motivi aggiunti”, l’impresa interessata censura sotto più profili le
determinazioni assunte dall’Amministrazione provinciale con due distinti
provvedimenti, il secondo dei quali adottato in esito alla richiesta di riesame
formulata dalla ricorrente; alla domanda giudiziale di annullamento degli atti
impugnati, poi, si affianca la domanda di risarcimento dei danni.
Va innanzi tutto esaminata l’eccezione imperniata sull’inammissibilità dei
“motivi aggiunti”, perché relativi a questioni che, investendo anche un parere
dell’A.R.P.A. dell’Emilia-Romagna, hanno reso necessaria l’estensione della lite
ad un’Amministrazione diversa da quella inizialmente evocata in giudizio, e
tanto in asserita violazione dell’art. 21, comma 1, della legge n. 1034 del 1971
(nel testo modificato dall’art. 1 della legge n. 205 del 2000) laddove dispone
che “… Tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse
parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante
proposizione di motivi aggiunti …” (v. memorie difensive dell’A.R.P.A.
depositate in data 17 dicembre 2005 e in data 8 febbraio 2008). Osserva tuttavia
il Collegio che, per costante giurisprudenza, la norma in questione deve essere
interpretata nel senso che il mezzo processuale dei “motivi aggiunti” è
utilizzabile anche se, in ragione del suo impiego, vengano a configurarsi
ulteriori parti, in quanto la prescrizione di legge va riferita all’identità
soggettiva delle parti principali del rapporto controverso (Autorità emanante e
privato leso dall’esito del procedimento) e non anche a tutti i soggetti,
pubblici o privati, interessati agli effetti degli atti adottati successivamente
dalla medesima Amministrazione (v., tra le altre, Cons. giust. amm. sic. 8 marzo
2007 n. 185); ove, quindi, venga rilievo un mero atto endoprocedimentale - come,
nella circostanza, quello attribuito all’A.R.P.A. -, l’organo che lo ha emesso,
per essere estraneo alle parti principali del giudizio, si presenta portatore di
una posizione soggettiva che, qualunque ne sia la qualificazione giuridica,
appare insuscettibile di determinare un’alterazione dei tratti identificativi
essenziali della controversia giudiziale in cui si innestano i “motivi
aggiunti”.
Nel merito, vanno dichiarate improcedibili le censure con cui, relativamente al
primo dei due atti di diniego, si fanno valere l’omessa acquisizione del parere
preventivo dell’A.R.P.A. e la mancata comunicazione dei motivi ostativi ex art.
10-bis della legge n. 241 del 1990. Nel vagliare, in effetti, l’istanza di
riesame dell’originario diniego di autorizzazione e nel concludere poi per
l’insussistenza delle condizioni necessarie alla revoca dell’atto,
l’Amministrazione provinciale ha di fatto consentito l’effettuazione di quel
contraddittorio con il privato in cui si concreta il meccanismo di cui all’art.
10-bis e, confermando le ragioni del diniego - oltre ad aggiungerne di ulteriori
-, ha finito per rimuovere, sebbene senza darne espressamente atto, il vizio
originario; quanto, poi, all’ausilio tecnico dell’A.R.P.A., la successiva
consultazione di detto organo ha permesso all’Autorità decidente di disporre di
ogni elemento di valutazione utile allo scopo e di verificare se gli iniziali
motivi di diniego andassero o meno corretti, sì che anche sotto questo profilo
le ulteriori determinazioni, pur in assenza di una formale dichiarazione, hanno
in concreto dato luogo ad una vera e propria sanatoria del vizio formale
originario.
Per il resto, la circostanza che il secondo atto di diniego sia intervenuto ad
integrare il primo, con lo stesso saldandosi, giustifica un esame unitario dei
due provvedimenti e delle ragioni ostative al rilascio dell’autorizzazione ivi
addotte. A tal fine, in particolare, appare appropriato muovere dai motivi che
l’Amministrazione provinciale indica quali profili di ordine
giuridico-amministrativo.
Dispone l’art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 22 del 1997 (normativa applicabile
alla fattispecie “ratione temporis”) che gli “impianti mobili di smaltimento o
di recupero, ad esclusione della sola riduzione volumetrica, sono autorizzati in
via definitiva dalla regione ove l’interessato ha la sede legale o la società
straniera proprietaria dell’impianto ha la sede di rappresentanza. Per lo
svolgimento delle singole campagne di attività sul territorio nazionale
l’interessato, almeno sessanta giorni prima dell’installazione dell’impianto,
deve comunicare alla regione nel cui territorio si trova il sito prescelto le
specifiche dettagliate relative alla campagna di attività, allegando
l’autorizzazione di cui al comma 1 e l’iscrizione all’Albo nazionale delle
imprese di gestione dei rifiuti, nonché l’ulteriore documentazione richiesta. La
regione può adottare prescrizioni integrative oppure può vietare l’attività con
provvedimento motivato qualora lo svolgimento della stessa nello specifico sito
non sia compatibile con la tutela dell’ambiente o della salute pubblica”. Come
la Sezione ha avuto occasione di rilevare (v. sent. n. 235 del 27 aprile 2001),
gli impianti mobili beneficiano di questo semplificato e celere regime
autorizzatorio in ragione del tenue e transitorio impatto con l’ambiente,
essendo essi “mobili” in senso funzionale, e cioè non solo agevolmente amovibili
ma anche connotati da un rapporto di precarietà, quindi delimitato
temporalmente, con l’area su cui vengono installati, in corrispondenza delle
c.d. «campagne di attività», che consistono sostanzialmente in programmi di
lavoro con cui l’impresa che gestisce l’impianto comunica alla competente
Amministrazione l’entità (in termini di qualità e quantità della produzione) e
la durata dell’utilizzazione del sito da parte dei macchinari impiegati per
l’attività di trattamento dei rifiuti. Peraltro, l’autorizzazione all’uso
dell’impianto mobile, costituendo una «species» del «genus» dell’autorizzazione
all’esercizio delle operazioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti prevista
dall’art. 28, comma 1 (“L’esercizio delle operazioni di smaltimento e di
recupero dei rifiuti è autorizzato dalla regione competente per territorio entro
novanta giorni dalla presentazione della relativa istanza da parte
dell’interessato. L’autorizzazione individua le condizioni e le prescrizioni
necessarie per garantire l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2, ed in
particolare …”), deve tenere conto dei generali canoni di disciplina della
gestione dei rifiuti indicati dall’art. 2 del d.lgs. n. 22 del 1997 ed
informarvi il proprio contenuto, anche a mezzo di prescrizioni utili a fissare
limiti e condizioni all’attività di trattamento dei rifiuti oggetto del titolo
abilitativo, come del resto confermato dalla circostanza che l’art. 28, comma 7,
contempla la possibilità di prescrizioni “integrative” nell’ambito delle varie
campagne di attività, ovvero di disposizioni di completamento di quelle già
presenti nell’autorizzazione generale; il che implica che l’autorizzazione
all’esercizio dell’impianto mobile non riguarda solo le attrezzature tecniche in
sé, ma si estende ad ogni aspetto dell’attività di trattamento dei rifiuti
suscettibile di incidere sui beni rimessi alla cura dell’Amministrazione
pubblica, quali regolati dalla disciplina della materia. Pertanto,
l’autorizzazione di cui all’art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 22 del 1997 ben può
contenere prescrizioni che regolino l’attività del gestore dell’impianto mobile
- in coerenza con i principi di cui al precedente art. 2 e nel rispetto della
normativa tecnica di settore -, prescrizioni poi eventualmente integrate nelle
singole “campagne” in relazione alle peculiarità del sito in cui l’impianto
venga di volta in volta ad operare.
Ciò posto, un primo profilo di dissenso tra le parti attiene all’ammissibilità o
meno dell’autorizzazione ex art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 22 del 1997 per un
“impianto mobile di trattamento di rifiuti speciali mediante miscelazione” che,
secondo l’Amministrazione, non sarebbe in realtà specificamente concepito e
attrezzato per un tipo ben definito di operazioni, risolvendosi piuttosto in una
pluralità di mezzi e macchinari privi di un effettivo legame e singolarmente
utilizzabili per una serie indeterminata di funzioni, con il rischio altresì di
dare luogo a risultati che, in ragione della libera miscelazione di materiali di
diversa e imprecisata natura, comprometterebbero la tutela dell’ambiente e della
salute umana [si veda l’atto di diniego del 10 agosto 2005 laddove afferma che
le “… strutture e gli apparati descritti nell’istanza (serbatoio mobile
compartimentato - piattaforma e sistema mobile di miscelazione, disgregazione e
vagliatura - benna miscelatrice) non si configurano come impianto in quanto il
concetto di impianto comporta un collegamento non solo funzionale ma anche
fisico-meccanico tra le diverse attrezzature o macchinari che compongono il
processo produttivo, presupponendo quindi l’utilizzo di una tecnologia che
inscindibilmente leghi tra loro le componenti necessarie al funzionamento.
Diversamente ci si trova in presenza di singoli mezzi e attività, ma non di un
impianto …” e che “… perché possa autorizzarsi un’attività di miscelazione tra
rifiuti non pericolosi è pertanto necessario che il richiedente l’autorizzazione
descriva puntualmente, per ogni codice rifiuto, a quale trattamento specifico ha
intenzione di sottoporlo, quale sarebbe il prodotto e/o la materia prima
ottenuta e in quale processo e in quale contesto ambientale dovrebbe essere
utilizzato dopo essere stato sottoposto ad attività di recupero …”]. Ad avviso
del Collegio, però, non v’è ragione per ancorare la nozione di “impianto mobile”
ad un rigido rapporto di tipo meccanico tra i vari elementi che lo compongono,
ben potendo un’attività produttiva concretarsi nell’uso di attrezzature atte ad
agire l’una indipendentemente dall’altra, ma unificate in un determinato
contesto operativo dalla esclusiva destinazione ad un comune obiettivo, al
raggiungimento del quale tutte necessariamente concorrono in uno schema
organizzativo previamente definito; appare, insomma, fondata la censura con cui
la ricorrente lamenta che non si sia privilegiata una nozione “funzionale” di
impianto, per poi assoggettare il processo produttivo alla verifica
dell’idoneità a realizzare, in condizioni di sicurezza, l’attività oggetto della
richiesta di autorizzazione. Quanto, invece, alla collegata questione dei rischi
relativi alla “miscelazione”, va considerato che, pur dovendosi condividere il
rilievo della ricorrente circa l’assenza di norme preclusive di una simile
tipologia di trattamento dei rifiuti (l’art. 9 del d.lgs. n. 22 del 1997 reca il
divieto di miscelazione dei soli rifiuti pericolosi), la tutela dell’ambiente e
della salute umana richiede tuttavia che la competente Amministrazione tenga
conto caso per caso della natura dei materiali trattati, del procedimento di
miscelazione e delle caratteristiche delle sostanze risultanti dal trattamento,
e che all’esigenza di preservare i beni affidati alle sue cure ispiri la
fissazione delle prescrizioni che devono accompagnare l’autorizzazione
all’esercizio dell’impianto, previa eventuale richiesta al gestore di ogni
elemento di conoscenza utile a specificare il contenuto dell’attività di
trattamento dei rifiuti che si vuole porre in essere, anche in vista di una
possibile preliminare imposizione di adeguamenti tecnici necessari allo scopo;
non può, dunque, in simili circostanze l’Amministrazione limitarsi ad accertare
l’insufficienza dei dati trasmessi dal privato, spettando ad essa proseguire il
procedimento con una precisa richiesta degli ulteriori elementi di cui abbia
bisogno per impartire le necessarie prescrizioni, oltre che per indicare le
pregiudiziali modifiche tecniche che dovessero essere valutate indispensabili.
Solo entro tali limiti le doglianze in esame possono allora essere accolte, e in
quest’ottica si spiega, del resto, la misura cautelare concessa dalla Sezione
(“Considerato che la sommaria delibazione propria della fase cautelare induce ad
escludere la sussistenza di ragioni assolutamente ostative al rilascio
dell’autorizzazione oggetto della controversia, difettando una norma che vieta
la miscelazione dei rifiuti non pericolosi, anche a mezzo di un impianto mobile;
che naturalmente il recupero, la miscelazione e lo smaltimento dei rifiuti
debbono avvenire con i doverosi controlli e senza pericolo per l’ambiente, onde
si rende necessario che la ricorrente apporti gli adeguamenti tecnici prescritti
dall’Amministrazione e idonei a consentire le verifiche a tale scopo utili;
Ritenuto, dunque che - entro quaranta giorni dalla comunicazione della presente
decisione - l’Amministrazione provinciale, su proposta dell’ARPA, dovrà
impartire le prescrizioni che garantiscano che l’impianto mobile della
ricorrente sia assoggettato ai requisiti e ai controlli preordinati ad
accertare, eventualmente con le analisi del caso, la natura dei rifiuti trattati
dall’impianto e delle materie risultanti dal procedimento di miscelazione,
nonché ad assicurare che durante quest’ultima fase non si verifichino
spandimenti o immissioni pericolose in atmosfera, stabilendo le opportune
modifiche al progetto presentato …”), cui ha poi fatto seguito, anche per
effetto delle variazioni progettuali conseguentemente apportate dalla
ricorrente, il rilascio di un’autorizzazione alla gestione dell’impianto
accompagnata da una serie di prescrizioni (v. determinazione in data 10 luglio
2006).
La parziale fondatezza delle censure ora esaminate comporta, come si è visto,
una rinnovazione del procedimento (in realtà già realizzatasi a seguito della
misura cautelare disposta dalla Sezione) e la conseguente possibile revisione
del progetto presentato dalla ricorrente, nei limiti in cui tanto si renda
necessario per la ricordata esigenza di tutela dell’ambiente e della salute
umana. Le modalità di esercizio dell’impianto e le soluzioni progettuali in
concreto derivanti dagli accorgimenti tecnici che saranno prescritti
dall’Amministrazione, anche alla luce della disponibilità dell’impresa allo
studio di misure utili a soddisfare le esigenze del caso (v. nota del 9 agosto
2005 e successiva risposta interlocutoria dell’Autorità decidente), incideranno
presumibilmente - modificandone i termini - sull’ulteriore questione del c.d.
“stoccaggio” dei rifiuti, nel senso che un’eventuale diversa regolazione delle
procedure operative è idonea a riflettersi altresì sulla qualificazione formale
delle azioni in cui si articola la specifica attività di trattamento dei
rifiuti, definendone il regime giuridico. In questa sede il Collegio può solo
rilevare che l’autorizzazione di cui all’art. 28, comma 7, del d.lgs. n. 22 del
1997 include l’intero ciclo di trattamento dei rifiuti di pertinenza
dell’impianto mobile (escluse ovviamente, se ve ne sono, le autonome fasi di
lavorazione anteriori o successive), sicché l’eventualità che gli stadi
intermedi dell’attività si risolvano in operazioni soggette, in via ordinaria,
ad un’autorizzazione ex art. 28, comma 1, non sdoppia l’iter in più separati
procedimenti né dà luogo a distinti titoli abilitativi né ancora si determina
per ciò solo la preclusione al rilascio dell’autorizzazione relativamente
all’impianto mobile, per essere quello di cui al comma 7 assorbente dei titoli
abilitativi di cui al comma 1, previa naturalmente l’adozione di tutte le
prescrizioni allo scopo necessarie. Donde la fondatezza della censura incentrata
sull’illegittimità della pretesa dell’Amministrazione a che la “messa in
riserva” dei rifiuti sia autorizzata separatamente, e che, per attenere la
stessa a strutture fisse, ne scaturisca un automatico e definitivo ostacolo
all’esercizio dell’impianto mobile; in realtà, non emergendo dall’ordinamento
divieti di sorta all’operatività degli impianti mobili, ogni esigenza di tutela
dell’ambiente deve essere tendenzialmente soddisfatta a mezzo di misure
conciliabili con la natura di detti impianti, per non vanificarne di fatto
l’esistenza - anche quando vincoli formali generali sembrino di per sé
precluderne l’impiego -, salvo naturalmente il limite dell’assoluta
incompatibilità tecnica degli impianti con la specifica attività di cui è nel
singolo caso richiesta l’autorizzazione.
Va, poi, dichiarata fondata la censura con cui si imputa all’Amministrazione di
avere erroneamente addotto la necessità di titoli edilizi e di avere di
conseguenza illegittimamente escluso la configurabilità dell’impianto come
impianto mobile (si veda l’atto di diniego del 10 agosto 2005 laddove afferma
che la “… struttura prefabbricata in calcestruzzo destinata a costituire il
piano di appoggio per la miscelazione dei diversi rifiuti e prodotti, pur in
assenza di uno specifico ancoraggio al suolo, sembra comportare un’alterazione
dello stato dei luoghi di tale incisività da richiedere, a norma della L. R.
24.11.2002 n. 31, la preventiva acquisizione di titoli abilitativi edilizi i
quali appaiono inconciliabili con le caratteristiche di mobilità proprie degli
impianti cui è riservata la specifica procedura autorizzativa qui invocata …”).
L’Amministrazione provinciale, invero, ammette che non vi è ancoraggio al suolo
e, tuttavia, ipotizza un impatto sul territorio di entità tale da desumerne
l’incompatibilità con una struttura precaria, così - osserva il Collegio -
indebitamente anticipando valutazioni che non possono prescindere dalle
caratteristiche del terreno su cui l’impianto verrà di volta in volta
installato: è in tal senso decisivo il rilievo che l’art. 8, comma 1, lett. m),
della legge reg. n. 31 del 2002 assoggetta sì a denuncia di inizio attività i
“significativi movimenti di terra senza opere” e che l’Allegato alla medesima
legge li definisce come i “rilevanti movimenti morfologici del suolo non a fini
agricoli e comunque estranei all’attività edificatoria quali gli scavi, i
livellamenti, i riporti di terreno, gli sbancamenti”, ma al contempo rimettendo
ai singoli regolamenti urbanistici ed edilizi la concreta determinazione delle
“caratteristiche dimensionali, qualitative e quantitative degli interventi al
fine di stabilirne la rilevanza”, onde solo caso per caso, alla luce della
disciplina locale, sarà possibile accertare la necessità o meno di un titolo
edilizio. Difettano, dunque, in questa fase gli elementi che giustifichino,
sotto il profilo edilizio, una classificazione dell’impianto nei termini che, in
via del tutto ipotetica, l’Amministrazione prefigura.
La domanda giudiziale di annullamento degli atti impugnati, in conclusione,
viene accolta nei suindicati limiti, mentre restano assorbite le restanti
questioni, ivi comprese quelle relative ad aspetti tecnici - censurati “in
primis” per difetto di motivazione e di istruttoria -, la cui effettiva e
perdurante incidenza negativa per la ricorrente va verificata all’esito del
nuovo procedimento, in sede di eventuale impugnativa delle relative
determinazioni, anche in ragione della disponibilità a suo tempo manifestata
dall’impresa ad una revisione del progetto (v. nota del 9 agosto 2005).
Quanto, infine, alla pretesa risarcitoria, ritiene il Collegio di dover
richiamare quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui non ogni
annullamento giurisdizionale di atto amministrativo illegittimo dà titolo al
risarcimento del danno, perché ove sia attuabile il riesercizio del potere, da
un lato è ancora possibile il risarcimento del danno in forma specifica - con
adozione di un provvedimento favorevole -, e dall’altro lato il bene della vita
potrebbe ancora essere negato, con un atto amministrativo emendato dagli
originari vizi; in particolare, in ipotesi connotate dalla persistenza in capo
all’Amministrazione di spazi di riesercizio del potere discrezionale, va esclusa
l’indagine del giudice sulla spettanza del bene della vita, ammettendosi il
risarcimento solo dopo e a condizione che l’Amministrazione, riesercitato il
proprio potere come le compete per effetto del giudicato, abbia riconosciuto al
richiedente il bene della vita, nel qual caso il danno ristorabile non potrà che
ridursi al solo pregiudizio da ritardo (v. Cons. Stato, Sez. VI, 11 dicembre
2006 n. 7215). Nella circostanza, tuttavia, pur a fronte del sopraggiunto
rilascio dell’autorizzazione, emerge da questo atto - il cui sindacato
naturalmente esula dal presente giudizio - che l’originario progetto della
ricorrente è stato modificato su impulso dell’A.R.P.A., sì che alla conclusione
positiva dell’iter si è potuti giungere solo con il concorso della volontà del
privato e con la conseguente parziale variazione dell’istanza originaria,
rivelatasi di per sé insuscettibile di accoglimento. Il che induce al rigetto
della domanda di risarcimento del danno, anche per essere il provvedimento
abilitativo intervenuto nel fisiologico termine di novanta giorni dal deposito
da parte dell’impresa della “relazione tecnica integrativa” (avvenuta in data 11
aprile 2006), con cui si è dato seguito alla richiesta di revisione
dell’elaborato progettuale.
La complessità delle questioni dedotte giustifica la compensazione delle spese
di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia-Romagna, Sezione di Parma,
pronunciando sul ricorso in epigrafe, così provvede:
- accoglie, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, la domanda di
annullamento e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati;
- respinge l’istanza risarcitoria.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Parma, nella Camera di Consiglio del 19 febbraio 2008, con
l’intervento dei Magistrati:
Luigi Papiano, Presidente
Umberto Giovannini, Consigliere
Italo Caso, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 01/04/2008
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
IL SEGRETARIO
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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
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