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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006 - ISSN 1974-9562
CORTE
DI CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, (Ud. 7/04/2009, Dep. 13/05/2009), Sentenza n.
n. 11059
DANNO AMBIENTALE - DIRITTO SANITARIO - Risarcimento del danno non
patrimoniale - Mezzi di prova - Fattispecie. Il danno non patrimoniale
consistente nel patema d'animo e nella sofferenza interna ben può essere provato
per presunzioni e che la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto
ignoto da dimostrare sia l'unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo
sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell'uno in dipendenza del
verificarsi dell'altro secondo criteri di regolarità causale. Fattispecie:
fuoriuscita da una fabbrica (in Seveso) di una nube tossica composta da diossina
e risarcimento del danno morale. Presidente Preden, Relatore Amatucci,
Ricorrente Icmesa s.p.a.. CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, (Ud.
7/04/2009, Dep. 13 maggio 2009), Sentenza n. 11059
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Danno non patrimoniale - Risarcibilità -
Presupposti. Con sentenza della Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972,
è stato esclusa l'autonomia della categoria del cosiddetto danno esistenziale,
al contempo si è chiarito che nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri
come reato il danno non patrimoniale è risarcibile nella sua più ampia accezione
di danno determinato da lesioni di interessi inerenti alla persona non connotati
da rilevanza economica; che la sofferenza morale cagionata dal reato non è
necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per
lungo tempo, assumendo rilievo la sua durata ai fini della quantificazione del
risarcimento; che, nell'ambito della categoria generale del danno non
patrimoniale, la formula “danno morale” non individua un'autonoma sottocategoria
di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo
di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé
considerata; che, in conclusione, è compito del giudice accertare l'effettiva
consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli,
individuando quali ripercussioni negative sul valore uomo si siano verificate.
Pres. Preden, Rel. Amatucci, Ric. Icmesa s.p.a.. CORTE DI CASSAZIONE CIVILE,
Sez. III, (Ud. 7/04/2009, Dep. 13/05/2009), Sentenza n. 11059
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UDIENZA 07.04.2009
SENTENZA N.
REG. GENERALE n.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III CIVILE,
Composta dagli Ill. mi Signori
Omissis
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
1. - Nel luglio del 1995 Anna Anania ed altre 85 persone residenti in prossimità
dell'impianto produttivo dell'ICMESA s.p.a. di Seveso dal quale, in data
10.7.1976, era fuoriuscita una nube tossica composta da diossina, convennero in
giudizio la predetta società in liquidazione chiedendone la condanna - per
quanto in questa sede interessa - al risarcimento del danno morale.
La convenuta resistette.
Con sentenza n. 7825/03 l'adito tribunale di Milano rilevò tra l'altro che era
intervenuta condanna per il reato di disastro ambientale di cui all'art. 449
c.p. nei confronti di soggetti del cui fatto la convenuta era civilmente
responsabile e la condannò a pagare a ciascuno degli attori la somma di Euro
5.000, liquidata all'attualità, compensando le spese.
2. - La società soccombente propose appello, dolendosi che la domanda fosse
stata accolta nonostante la mancanza di prova circa la sussistenza di un danno
effettivo, in subordine sostenendo che la liquidazione era stata eccessiva.
Il gravame, cui avevano resistito gli attori, è stato respinto dalla corte
d'appello di Milano con sentenza n. 2829 del 2005, che ha anche condannato
l'appellante alle spese del grado.
3. - Avverso detta sentenza ricorre per cassazione la ICMESA s.p.a. in
liquidazione sulla base di sette motivi, illustrati anche da memoria, cui
resistono con unico controricorso Salvatore Capria, Giuseppe Donghi e Maurizio
Donghi, i quali hanno rilasciato procura speciale in calce al controricorso.
Gli altri 77 intimati indicati non hanno svolto attività difensiva, non essendo
valida la procura richiamata in controricorso, rilasciata per il giudizio di
merito e dunque priva del requisito di specialità.
Motivi della decisione
1. Con i sette motivi di ricorso la sentenza è rispettivamente censurata:
a) per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., 115 e 116
c.p.c. laddove aveva posto a base della decisione un'inesatta nozione di fatto
notorio, violando anche le norme sulle presunzioni semplici e finendo col
considerare notorio il danno stesso, che era invece il fatto da provare;
b) per violazione e falsa applicazione degli artt. 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c.,
nonché per omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo nella parte in
cui aveva ritenuto che dal fatto notorio della sottoposizione dei residenti
nell'area contaminata a controlli sanitari ed a prescrizioni di comportamento
potesse “certamente inferirsi, secondo l'id quod plerumque accidit, che
in ciascuno dei soggetti anzidetti si sia determinato quel patema d'animo,
ovvero quello stato di preoccupazione per la propria salute (esposta a pericolo
di disastro ambientale, e quindi di turbamento, di tensione e di ansia -
transeunte ancorché duraturo - che viene a configurare il danno morale” (pagina
9 della sentenza); si sostiene che in tema di prova per presunzioni il fatto
ignoto da accertarsi deve profilarsi come la sola conseguenza logicamente
possibile del fatto noto, o quantomeno in termini di ragionevole certezza e non
di mera possibilità;
c) per violazione e falsa applicazione dell'art. 2727 c.c. per avere, in
violazione del divieto del praesumptum de praesumpto, dedotto in via
presuntiva che danno vi fosse stato dalla presunzione che dai controlli sanitari
fossero derivati agli attori “evidenti timori sia per la propria salute che per
quella di soggetti diversi ...” (pagina 6 della sentenza);
d) per violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 e 2697 c.c. per aver
identificato il danno con la lesione dell'interesse, senza considerare che il
danno, anche quello non patrimoniale, non è mai configurabile in re ipsa,
ma è pur sempre conseguenza del fatto, che va dunque provato, e va inoltre
personalizzato, come precisato nel precedente specifico costituito da Cass.,
sez. un., n. 2515/02;
e) per violazione e falsa applicazione dell'art. 81 c.p.c. laddove, mediante il
rilievo conferito alla notorietà degli inconvenienti in cui era incappata “tutta
la popolazione residente nelle zone circostanti lo stabilimento ICMESA”, dato in
realtà ingresso ad una class action, ignota al nostro ordinamento, dove
invece vige il principio secondo il quale, fuori dei casi espressamente previsti
dalla legge, nessuno può far valere in nome proprio un diritto altrui;
f) per violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2043 e 2697 c.c.
giacché, affermando che il fatto avrebbe determinato riflessi nella vita sociale
e di relazione degli attori per i controlli sanitari cui sarebbero stati
sottoposti per dieci anni con conseguenti limitazioni del normale svolgimento
della vita, la corte territoriale avrebbe in realtà riconosciuto non il danno
morale, che per sua natura consiste in un transeunte perturbamento, ma il danno
“esistenziale”, che consistendo in un non facere esteriore, va più
rigorosamente provato;
g) per violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c.,
in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., in relazione alla quantificazione
uniforme del danno per tutti gli attori nel riconosciuto difetto di elementi per
una differenziazione delle varie posizioni, a conferma della carenza di prova
sopra rilevata ed a rivelazione di una carenza di motivazione in punto di
effettuata liquidazione equitativa.
2. - Le censure, che possono essere congiuntamente esaminate per la connessione
che le connota, sono tutte infondate.
La corte d'appello ha dato analiticamente conto (alle pagine 5, 6 e 7 della
sentenza impugnata) delle ragioni che avevano indotto il tribunale
all'accoglimento della domanda, espressamente riferendo che tutti coloro, come
gli attori, che risiedevano nelle zone delimitate come “B” ed “R”, come risulta
dalla documentazione prodotta (così, testualmente, a pagina 5) vennero
sottoposti, in quanto soggetti a rischio, a ripetuti controlli sanitari, sia
nell'immediatezza dell'evento sia successivamente, per parecchi anni, almeno
fino al 1984. Lo stesso concetto è nuovamente espresso a pagina 9, capoverso,
dove si afferma essere notorio e comunque documentato che i controlli
interessarono anche specificamente gli attori/appellati, nessuno di essi
escluso.
Il fatto da cui la corte ha preso le mosse per la configurazione del danno non
patrimoniale in capo agli attori (ravvisato nel patema d'animo indotto in ognuno
dalla preoccupazione per il proprio stato di salute) è stato dunque ritenuto, al
di là del riferimento al notorio, documentalmente provato, sicché manca il
presupposto stesso delle censure mosse alla sentenza con i primi tre motivi.
Per il resto la sentenza è del tutto conforme a diritto dove afferma che il
danno non patrimoniale consistente nel patema d'animo e nella sofferenza interna
ben può essere provato per presunzioni e che la prova per inferenza induttiva
non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l'unico riflesso possibile di
un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi
dell'uno in dipendenza del verificarsi dell'altro secondo criteri di regolarità
causale.
Né è stata fatta confusione di sorta tra interesse leso e danno derivatone,
avendo la corte d'appello chiarito che il tribunale - in linea con la richiamata
Cass., sez. un., n. 2515/02 - aveva ritenuto che l'art. 449 c.p. prevede un
delitto colposo di pericolo presunto a carattere plurioffensivo, in quanto
incidente sia sul bene pubblico immateriale ed unitario dell'ambiente che sulla
sfera individuale dei singoli soggetti che si trovano in concreta relazione con
i luoghi interessati dall'evento dannoso in ragione della loro residenza o
frequentazione abituale; sicché l'interesse nella specie leso è quello
rafforzato, e niente affatto adespota, proprio dei soggetti che si siano
trovati, come tutti gli attori, in particolare relazione con l'ambiente
inquinato da sostanze altamente tossiche. Da tale relazione è derivato il patema
d'animo e la preoccupazione che la corte ha correttamente ritenuto costituire
danno non patrimoniale risarcibile in quanto derivante da reato.
E tanto evidenzia l'infondatezza del quarto e del quinto motivo.
Quella del sesto discende dai principi recentemente enunciati da Cass., sez.
un., 11 novembre 2008, n. 26972, che ha escluso l'autonomia della categoria del
cosiddetto danno esistenziale, al contempo chiarendo che nell'ipotesi in cui il
fatto illecito si configuri come reato il danno non patrimoniale è risarcibile
nella sua più ampia accezione di danno determinato da lesioni di interessi
inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica; che la sofferenza
morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo
l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo, assumendo rilievo la sua
durata ai fini della quantificazione del risarcimento; che, nell'ambito della
categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non
individua un'autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili
pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza
soggettiva cagionata dal reato in sé considerata; che, in conclusione, è compito
del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a
prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative
sul valore uomo si siano verificate.
Comunque li abbia qualificati, la corte d'appello ha appunto risarcito tutti i
pregiudizi che ha ragionevolmente ritenuto derivati dal reato, in linea con gli
enunciati principi.
L'infondatezza del settimo motivo, infine, è connessa al rilievo che la corte
d'appello ha ritenuto che, alla luce degli elementi che hanno caratterizzato la
vicenda in questione (gravità del fatto e delle sue possibili conseguenze per la
salute della popolazione residente nell'area inquinata, lungo periodo per cui si
sono protratti i controlli di laboratorio ed il regime di vigilanza) l'importo
di Euro 5.000 liquidato in via equitativa in favore di ciascuno degli attori
corrispondesse ad una valutazione prudenziale, “se non addirittura minima” del
danno morale in questione (a pagina 10 della sentenza, sub 2.3.). Il che non
altro significa che, secondo l'apprezzamento di fatto compiuto dal giudice di
merito con motivazione senz'altro adeguata, in nessun caso potesse ipotizzarsi,
per ognuno, una valutazione equitativa del danno inferiore a quell'importo.
3. - Il ricorso è respinto.
Le spese (in favore dei tre intimati che hanno depositato controricorso) seguono
la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese,
che liquida in Euro 2.200, si cui 2.000 per onorari, oltre alle spese generali
ed agli accessori di legge.
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