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Legislazione  Giurisprudenza

 

 

Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso


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 Massime della sentenza

Segnalazione dr. Ottavio Milano

 

(Breve commento: Con due recenti sentenze (allegate) la Corte d'Appello di Firenze (sez.I Civ., nn.1402 e 1403 del 14.07.06) ha disapplicato l'art.5bis, in tema di indennità di esproprio, statuendo che l'indennizzo espropriativo (per espropri legittimi) va liquidato nell'unico modo ritenuto congruo, vale a dire agganciandolo all'integrale valore di mercato del bene. Questa sentenza appare il naturale epilogo di un cammino già intrapreso lo scorso anno dalla stessa Corte con le sentenze nn. 111 e 570/2005, rese però in tema di accessione invertita (ossia espropri illegittimi). Ad ogni buon conto le dette pronunce appaiono un monito per il legislatore nella parte in cui ricordano numerose pronunce (emanate ed emanande) della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, i cui principi non possono ulteriormente essere disattesi dal nostro Ordinamento senza con ciò provocare gravi danni all'erario). dr. Ottavio Milano

 

CORTE DI APPELLO di Firenze - Sez. I Civile -  14 luglio 2006 (Ud. 23/05/2006), Sentenza n. 1402
 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


La Corte di Appello di Firenze, sezione PRIMA CIVILE, composta dai magistrati:


Dott. Giovacchino Massetani Presidente
Dott. Bruno Rados
Consigliere
Dott. Paolo Occhipinti relatore
Consigliere


ha pronunciato la seguente:


SENTENZA


nella causa civile iscritta al n. 2470/A/2003 del ruolo generale degli affari contenziosi civili e vertente tra:
BIGAGLI BRUNO elettivamente domiciliato in Firenze, Lungarno Corsini n. 2 presso e nello studio dell'Avv.to Giovannelli Guido che lo rappresenta e difende come da delega in calce all'atto di citazione;


Appellante


E


COMUNE PRATO elettivamente domiciliato in Firenze, Via Masaccio n. 172, presso lo studio Stancanelli - Cecchi e rappresentato e difeso dall'Avv.to Tognini Paola e dall'Avv.to Gisondi Raffaello come da delega in atti;


Appellato


All’udienza del 14-11-2005 la causa passava in decisione sulle seguenti conclusioni:

Conclusioni delle parti.


Per l’attore: a) determinare l’indennità dovuta per l’espropriazione dell’area indicata in citazione, secondo le risultanze peritali; b) maggiorare la somma della rivalutazione monetaria e degl’interessi dalla data della citazione fino a quella del pagamento o del deposito alla cassa Depositi e Prestiti.


Per il convenuto: Riconvocare il c.t.u. affinché adegui la stima del terreno alla mancanza o estrema difficoltà della edificabilità di fatto. Nel merito, in via preliminare disporre la sospensione del processo in attesa dell’esito dei giudizi avanti al TAR Toscana; respingere l’opposizione proposta e confermare la stima operata dal Comune.


Svolgimento del processo


Con citazione notificata il 5.11.2003 Bigagli Bruno conveniva avanti a questa Corte il Comune di Prato per chiedere determinarsi l’indennità dovutagli per l’espropriazione di un suo terreno edificabile, posto in territorio di Prato, angolo fra via Gherardi e via Bologna, della superficie di mq. 1206, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali. Faceva presente che il terreno, situato a ridosso di un’area interessata da un Piano di recupero finalizzato alla realizzazione di un nuovo complesso residenziale e commerciale, era stato, pur non facendo parte di tale area, espropriato al fine di ricavarne una zona di verde pubblico e parcheggi, onde il Comune, nel determinare l’indennità di esproprio nella inadeguata entità di euro 64.307,09, avrebbe dovuto tenere conto di questa particolare attitudine del terreno in questione e del suo carattere di funzionalità rispetto all’area oggetto del piano di recupero.


Il Comune si costituiva per contestare la pretesa dell’attore, negando che potesse esserci un rapporto fra il valore dell’area oggetto del piano di recupero e il valore di stima del terreno espropriato, non incluso in tale area, ancorché ne fosse stato previsto l’esproprio come condizione per la realizzazione del piano stesso.


Era disposta consulenza tecnica, all’esito della quale le parti precisavano le rispettive conclusioni, come sopra trascritte, e la Corte poneva in decisione la causa.


Motivi della decisione


1. Preliminarmente, va disattesa la richiesta di sospendere il processo in attesa della pronuncia del giudice amministrativo in ordine alla impugnativa del piano di recupero collegato al procedimento ablativo della cui indennità si discute. Invero, fra i due ordini di contese non esiste rapporto di pregiudizialità perché, quale che possa essere l’esito del giudizio amministrativo, esso non comporterà l’automatica caducazione del provvedimento di espropriazione e, quindi, non preclude il diritto dell’espropriato di contestare sin da ora l’ammontare dell’indennità già dovutagli.


Venendo al merito, si rileva che, come accertato dal consulente tecnico d’ufficio, prima dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio i terreni oggetto della causa “erano dotati di possibilità legali di edificazione in quanto erano compresi dagli strumenti urbanistici in zona di espansione per attrezzature pubbliche”. L’edificabilità di fatto è significata dalla posizione in vicinanza di strade di intensa viabilità, di opere di urbanizzazione, di preesistenti insediamenti residenziali. Il carattere di edificabilità, legale ed effettivo, risulta riconosciuto, del resto, dalla stessa Amministrazione espropriante, che aveva determinato l’indennità provvisoria con espresso riferimento all’art. 5 bis della legge n. 359/1992, concernente, appunto, la determinazione dell’indennità di esproprio dei suoli edificabili.


Il vincolo preordinato all’esproprio nasce con la deliberazione del Comune di Prato n. 281 del 15.12.1998 di approvazione del piano di recupero in località Coiano, fra le vie Gherardi e Bologna, rispetto al quale il terreno espropriando, pur non facendone parte, avrebbe assolto funzione di verde pubblico. Infatti, l’acquisizione dell’area per la realizzazione del verde pubblico era stata posta dal Consiglio Comunale come condizione per l’approvazione del piano di recupero suddetto.


Nello stabilire il valore venale dell’area in questione, diligentemente il c.t.u. ha fatto riferimento alle due ipotesi alternative, a seconda che l’area fosse da intendere ricompresa o meno nel piano di recupero; comunque, la Corte non ha dubbio che il valore da considerare ai fini dell’indennità di espropriazione sia quello che il terreno avrebbe avuto indipendentemente dalla realizzazione del piano di recupero: diversamente, verrebbe illogicamente a porsi come componente del calcolo dell’indennità la causa stessa - cioè il vincolo espropriativo - del danno indennizzabile. Sotto questo aspetto, quindi, la domanda proposta in linea principale dall’attore non merita accoglimento.


Ora, dalla c.t.u. risulta che, facendo riferimento all’indice fondiario medio della zona omogenea di piano regolatore generale in cui il terreno ricade, esso avrebbe avuto un valore venale di euro 395.000,00, secondo i calcoli e le considerazioni sviluppate dal consulente d’ufficio particolarmente alle pagine 38/40 della sua relazione, che qui la Corte intende richiamare come parte integrante della sentenza.


Oppone a questa determinazione di valore il Comune che il c.t.u. non avrebbe tenuto conto del nuovo strumento urbanistico, approvato con deliberazione n. 70 del 3.5.2001 (quindi antecedente al decreto di espropriazione, che è del 26.11.2003), con il quale il terreno di proprietà dell’attore risulta destinato parte a verde (giardini), parte a viabilità, e non avrebbe tenuto conto, inoltre, che per la sua configurazione geometrica, stretta e lunga, il terreno presentava una edificabilità di fatto assai ridotta. Entrambe le obiezioni, tuttavia, sono infondate nel merito, non anche, come vorrebbe l’attore, sul punto preliminare dell’inammissibilità dell’eccezione tardiva, essendo evidente che non si tratta di eccezione processuale, ma di argomentazione aggiuntiva finalizzata alla determinazione del valore venale del terreno. Nel merito della questione, appunto, va in primo luogo puntualizzato che, indipendentemente dalla finalità assegnata dallo strumento urbanistico al terreno nell’ambito della zona omogenea (edificabile) di cui fa parte, il requisito della edificabilità legale è una conseguenza dell’inclusione nella zona, alla cui caratterizzazione complessiva, e, quindi, alla edificabilità di zona, esso partecipa in maniera essenziale. In altre parole, essendo l’edificabilità della zona dipendente dalla destinazione di certi suoi spazi a verde e a viabilità, questi spazi partecipano del valore di tutta la zona, in quanto senza di essi la zona non potrebbe essere edificata e perderebbe il suo valore di zona edificabile (v., in proposito, Cass. 13.7.2004 n. 12966). Avviene la stessa cosa, del resto, in qualsiasi singolo lotto edificabile, che sia vincolato al rispetto di un certo rapporto di copertura: la parte di terreno destinata a distacco, a viabilità interna, a parcheggio, ha lo stesso valore di quella destinata ad essere occupata dal fabbricato, perché l’una non può esistere senza l’altra, e dire che quella che sta davanti alla strada vale di meno, in quanto non può essere edificata, di quella che sta dietro, è lo stesso che dire che la testa di un cavallo vale meno del cavallo senza testa.


L’altra obiezione, relativa alla ridotta edificabilità di fatto dipendente dalla forma dello stacco di terreno espropriando e dalla sua contiguità alla strada pubblica, incontra, intanto, la stessa osservazione che si è appena fatta, e cioè che esiste, almeno di fatto, una complementarietà di valori fra il terreno che sta davanti e quelli che stanno dietro, i quali, essendo interclusi, potrebbero, da soli, considerarsi di fatto inedificabili. Si aggiunga, infine, che le ridotte possibilità di articolazione della costruzione contenute nelle dimensioni del singolo lotto, sarebbero comunque compensate dal privilegio di trovarsi in prima linea rispetto al fronte stradale.


Infine, non è ultroneo osservare che l’edificabilità, tanto legale, quanto reale, era stata riconosciuta dallo stesso Comune in fase amministrativa. 2. . Passando alla determinazione dell’indennità di espropriazione, secondo la normativa nazionale applicabile alla fattispecie, ossia l’art. 5 bis della L. 8.8.1992 n. 359, di conversione con modifiche del D.L. 11.7.1992 n. 333, occorrerebbe, trattandosi di area edificabile, sommare al valore venale, come sopra accertato, la somma dei redditi dominicali, rivalutati ai fini fiscali, degli ultimi dieci anni e dividere per due, in modo da avere la media dei due valori; sul risultato si dovrebbe, poi, applicare la riduzione del 40%, non essendo stata convenuta la cessione volontaria del bene. Il risultato andrebbe ulteriormente sottoposto alla verifica prevista dall’art. 16 del D.Lgs. 30.12.1992 n. 504, per il quale l’indennità di espropriazione non può, in ogni caso, superare il valore del terreno dichiarato dal proprietario ai fini dell’imposta comunale sugl’immobili (ICI). Come è noto, nella generalità dei casi - ed il presente non fa eccezione - l’applicazione di questi correttivi del valore di mercato dell’area espropriata porta alla determinazione di un’indennità di espropriazione notevolmente inferiore a tale valore, valutabile mediamente intorno al 30% del valore effettivo.


Sono note le vicende - responsabili di un fitto contenzioso - che hanno preceduto, accompagnato e seguito l’iter esistenziale dell’art. 5 bis, norma sorta per rimediare ad una incostituzionalità (quella per la quale, in sede di esproprio, i terreni edificabili si dovessero valutare come se fossero terreni agricoli) con un’altra incostituzionalità, meno grossolana, ma più sottile e artificiosa, sufficiente a guadagnarsi l’assoluzione della nostra Corte Costituzionale (sentenza n. 283 del 16.6.1993 e successive), ma con una sorta di raccomandazione penitenziale di una “sempre auspicata” revisione della normativa, raccomandazione puntualmente rinnovatasi ad ogni nuova occasione (2.11.1996 n. 369; 30.4.1999 n. 148; 11.7.2000 n. 262; 19.7.2000 n. 300). Il dubbio d’incostituzionalità, come è parimenti noto, veniva agitato principalmente in relazione all’art. 42 della Costituzione, che riconosce il diritto del proprietario espropriato all’indennizzo, oltre che sul versante dell’uguaglianza fra i cittadini, compromessa dalla inadeguatezza dell’indennizzo, il che significherebbe che l’interesse generale, giustificativo dell’espropriazione, verrebbe pagato da alcuni a vantaggio della generalità.


Sembra, oggi, potersi dire che questa regola dell’art. 5 bis abbia fatto il suo tempo, così come l’intero costrutto tematico tessuto per anni su di essa dalla giurisprudenza italiana, inclusa la giurisprudenza costituzionalistica, e che ha segnato il livello della cultura giuridica nazionale, essendovi implicato il fondamentale concetto del diritto di proprietà e il connesso problema dell’equilibrio fra interessi privati e interessi pubblici. Già con la decisione del 29.7.2004, emessa nel ben noto affaire Scordino, la Corte Europea per i diritti dell’Uomo aveva segnalato la défaillance contenuta nel sistema del citato art. 5 bis, per il fatto di non essere in grado di assicurare un equo indennizzo per la proprietà espropriata; con decisione unanime del 29.3.2006, emessa su ricorso del Governo italiano, la Grande Chambre della Corte Europea, nel confermare la precedente decisione, ha ulteriormente stigmatizzato, tanto sul piano normativo quanto su quello giurisprudenziale, la renitenza dell’Italia verso il principio fondamentale, riferibile all’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, del diritto del proprietario espropriato ad un giusto indennizzo, in sostanza la renitenza ad accettare, nella sua interezza, il concetto del diritto di proprietà come riconosciuto universalmente nell’ambito comunitario. “La Cour ( ... ) dit qu’il a eu violation del’article 1 du Protocole n° 1 à la raison du caractère inadéquat de l’indemnité d’expropriation ”, dando così ragione agli attori, che si erano lamentati, a fronte di un grave sacrificio dei loro beni, di avere avuto dallo Stato italiano un indennizzo “ridicule”.


C’era tuttavia da attendersi, prima o poi, dalla Comunità degli Stati un giudizio di questo tipo, mortificante - bisogna riconoscerlo - per le istituzioni nazionali, che si sono viste dare seccamente torto nello scontro diretto contro i propri stessi cittadini (e la stessa Corte europea non ha mancato di avvisare che controversie di questo genere se ne preparano a iosa), su un punto concernente uno dei diritti fondamentali dell’individuo: indizio preoccupante di una situazione di scollamento fra istituzioni e collettività, in ordine alla quale, forse, e certamente stando al giudizio della Corte europea, la condotta della nostra Corte Costituzionale avrebbe potuto e dovuto essere un’altra. Il disagio era però nell’aria: le liti per la determinazione dell’indennità erano divenute oramai un travaglio massacrante e incredibilmente dispendioso (una, due perizie giudiziali, quando non di più, con altrettante perizie di parte, da moltiplicarsi per il numero delle parti: basti pensare che l’espropriazione Scordino, risoltasi finalmente quest’anno, e nel modo che sappiamo, era cominciata nel 1981!), “lunare” per tutti, non solo per il diretto interessato, ossia il cittadino, ma per la giurisprudenza, massimamente quella della Cassazione, costretta a perseguire l’obiettivo di un risultato di equità - il giusto indennizzo - sulla base di indici di un’equità puramente convenzionale, se non addirittura cervellotica, e perciò inesistente, con interminabili disquisizioni e ripensamenti su riduzioni e maggiorazioni, quando del 40, quando del 50, quando del 20, quando del 10 per cento, sulla edificabilità dei suoli, di diritto, di fatto, di tertium genus, sulla natura dei vincoli, conformativi - espressione di conio curialesco che nemmeno si trova nel vocabolario della lingua italiana, almeno in quelli di uso più largo - ed espropriativi, sulle decorrenze; perfino forgiando istituti inauditi, come l’occupazione appropriativa - altra invenzione già due anni fa bocciata dalla Corte europea alla stregua di un escamotage per eludere le conseguenze di un illecito vero e proprio - e giungendo ad affermare, a proposito dell’ICI, al cui valore dichiarato l’indennità dovrebbe ridursi, che è giusto che la riduzione castighi l’evasore parziale, ma non l’evasore totale, ossia colui il quale, piuttosto che denunciare poco, non denuncia niente, e ciò grazie alla singolarissima motivazione che con tale norma (l’art. 16 del D.Lgs. 30.10.1992 n. 504) il legislatore avrebbe “inteso introdurre un elemento dissuasivo non dell’evasione totale (... ) bensì dell’elusione fiscale che si manifesta col dichiarare valori per le aree edificabili di gran lunga inferiori a quelli collegati al valore venale”, e facendo passare del tutto, a chi ancora ne avesse un poco, la voglia di esporsi al fisco.


Tutto questo, finalmente - ed a prescindere dagli orizzonti nuovi che potranno aprirsi con la più recente normativa nazionale - dovrebbe essere finito. Le perplessità, manifestate anche da organi come il Consiglio di Stato (sez. IV, 10.8.2004 n. 5499) riguardo alla operatività immediata nell’ordinamento interno delle norme comunitarie e al loro valore vincolante per il giudice nazionale, già da tempo sono state superate dalla Suprema Corte, la quale appare definitivamente orientata a riconoscere che “l’applicazione della convenzione, ove incorporata nel diritto interno, può comportare la disapplicazione delle norme interne ritenute incompatibili, senza attendere l’intervento adeguatore del potere legislativo” (Cass. 19.7.2002 n. 10542), e che il “decisum della Corte europea funge da insostituibile contributo interpretativo delle norme europee di salvaguardia dei diritti umani” (Cass. 15.2.2005 n. 3033; ma già Cass. 18.5.1999 n. 4817 affermava che “il giudice nazionale deve disapplicare le norme interne per incompatibilità con il diritto comunitario”). Anche le Sezioni Unite della Cassazione (6.5.2003 n. 6853; 14.4.2003 n. 5902), come già il Giudice delle leggi con la sentenza 19.1.1993 n. 10, hanno riconosciuto il carattere di norme primarie, all’interno del nostro ordinamento, della normativa comunitaria per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, sia pure attraverso la mediazione di una specifica legge nazionale di recepimento della convenzione stessa, mediazione che non appare più necessaria, almeno per effetto della legge 11.2.2005 n. 15, la quale ha sancito, se non confermato, l’ingresso ufficiale dei principi dell’ordinamento comunitario nel diritto amministrativo italiano, modificando nei seguenti termini l’art. 1 della legge 7.8.1990 n. 241: “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”. D’altra parte, è stato ripetutamente notato come sarebbe non solamente illogico, ma anche inutile ed anzi dannoso economicamente, che il giudice nazionale insistesse in una condotta giurisprudenziale sconfessata dalla Corte europea e foriera per lo Stato di responsabilità patrimoniale nei confronti dello stesso cittadino, a parte la più alta responsabilità, anche di ordine politico, nei confronti della Comunità degli Stati.


Col suo argomentare sull’affaire Scordino, la Grande Chambre della Corte europea per i diritti dell’Uomo ha avuto facile giuoco nel dimostrare la deliberata ed ingiustificata pervicacia con cui la normativa italiana, ossia, nel caso specifico, l’art. 5 bis in questione, rifiuta, come sistema, l’equivalenza dell’indennizzo al valore del bene espropriato, negando una “indemnité d’expropriation raisonnablement en rapport avec la valeur du bien”, e, per quanto la stessa Corte europea si sforzi di compenetrarsi nelle particolari esigenze d’interesse pubblico a cui ha dato peso la Corte Costituzionale italiana nelle sue varie decisioni in materia, essa esclude categoricamente che queste esigenze possano gravare genericamente sulla sorte di ogni singola espropriazione: cosicché “la Cour est de l’avis que le faites de la cause révèlent dans l’ordre juridique italien une défaillance, en consequence de laquelle une catégorie entière de paticuliers se sont vues et se voient toujours privés de leur droit au respect de leurs biens”, concludendo per un riconoscimento al titolare del diritto leso, di un “dommage matérial” pari, in sorte capitale, al valore del bene perduto, oltre agli accessori e al “dommage moral”. Infine, la singolare raccomandazione allo Stato italiano, non senza un interesse per la stessa Corte europea, di eliminare la défaillance, “de talle sorte que le système instauré par la Convention ne soit compromis par un gran nombre de requerts résultant de la meme causa”: come dire: affrettatevi, o soffocheremo tutti.


E’ importante notare, nel ragionamento seguito dalla Grande Chambre, la condivisibile osservazione della improponibilità, ai fini della quantificazione dell’indennità, di un bilanciamento fra gli effetti privatistici prodotti dalla singola espropriazione (“expropriation isolée”) e l’interesse pubblico, quasi che quest’ultimo potesse dipendere dal tira e molla su una manciata di soldi fra l’ente pubblico e il cittadino, mentre diversamente parrebbe doversi porre il discorso per operazioni su larga scala, impegnanti, da un lato, una quota rilevante delle risorse economiche pubbliche e, dall’altro lato, estesi comparti territoriali e non proprietà isolate, e nelle quali l’obbligatorietà della remunerazione piena potrebbe rappresentare un ostacolo insuperabile per il perseguimento della pubblica utilità (fu, appunto, in una situazione di questo tipo, che nacque la legge 15.1.1885 n. 2892, per il risanamento della città di Napoli colpita dal colera, e che era destinata a fare da modello all’attuale art. 5 bis, anche se il colera era scomparso da più di un secolo). Al che sarebbe semplicistico obiettare che l’agevolazione degli espropri, voluta, appunto, dall’art. 5 bis della legge del 1992, “recante misure urgenti per la finanza pubblica”, s’inquadrerebbe in un programma di misure straordinarie per il rilancio degl’investimenti: basterebbe replicare, al riguardo, che il carattere di straordinarietà della norma risulta contraddetto dalla gittata temporale della quale questa norma, con l’ausilio (illegittimo) della Corte Costituzionale, si è mostrata capace. Ciò che, effettivamente, appare inaccettabile, alla luce della giurisprudenza europea, e, possiamo aggiungere, alla luce della nostra stessa Costituzione, è il pretendere, come principio di salvaguardia dell’interesse pubblico, che il costo di esproprio delle aree urbane debba necessariamente essere inferiore al loro valore venale, quasi che il solo fatto di essere proprietario di un’area edificabile contenesse già in sé stesso delle ragioni di danno per la collettività.


Da tutto questo si può anche intuire quale grado di utilità potrebbe sortire il tornare ancora una volta (come è avvenuto ultimamente con ordinanza 6.5.2006 della Cassazione) a rimettere la questione nelle mani della Corte Costituzionale, quando già si sa da una fonte superiore come ci si deve regolare di fronte alle pronunce di quest’ultima.


Il risultato di tutto ciò è che l’art. 5 bis, con i suoi criteri di mortificazione del diritto dell’espropriato (il discorso vale, a maggior ragione, per le ipotesi di occupazione illegittima prevedute dal comma 7 bis dello stesso art. 5 bis, in ordine alle quali ha già avuto modo di pronunciarsi questa Corte fiorentina con le sentenze Squadrelli, del 27.2.2005, e Bruzzichelli, del 29.11.2004), non si applica più nella determinazione dell’indennità di espropriazione delle aree edificabili, la quale deve essere, conseguentemente, determinata sulla base del valore reale o di mercato del bene, come avviene, d’altronde, per i fabbricati.
Sul piano giuridico, pertanto, non sembra che siano percorribili altre strade che questa. Sul piano pratico, almeno della pratica giudiziaria, è innegabile il vantaggio di essersi liberati, speriamo per sempre, da quelle complicate ed interminabili disquisizioni delle quali, al di là di ogni loro merito culturale e scientifico, è certo che il diretto interessato, colui al quale quelle disquisizioni s’intendevano indirizzate, e cioè il cittadino medio, diciamolo onestamente, non ci ha mai capito nulla.


3. Concludendo, il valore di mercato dell’area, pari a lire 395.000.000, corrisponde all’indennità di espropriazione dovuta al proprietario.


Su tale somma, cui l’attore avrebbe avuto diritto dal giorno dell’espropriazione (26.11.2003), sono dovuti gl’interessi legali, con la stessa decorrenza (Cass. 28.1.2005 n. 1823; Cass. 27.1.2005 n. 1701), non anche il maggior danno derivante dalla svalutazione monetaria, in quanto, come è noto (Cass. 3.10.1997 n. 9665; Cass. 29.11.1993 n. 11791), il credito per indennità di espropriazione è credito di valuta, e non di valore. Non spetta, conseguentemente, la rivalutazione monetaria ai sensi del secondo comma dell’art. 1224 c.c., rimasta inferiore al tasso dell’interesse legale (la rivalutazione sarebbe spettata, comunque, nei solo limiti dell’eccedenza); e quanto al suo riferimento alla sentenza della Cassazione (22.2.2000 n. 1997), secondo la quale il giudice potrebbe determinare presuntivamente questo danno secondo gl’usuali impieghi di denaro capaci di dare un utile sicuramente maggiore del tasso dell’interesse legale, è sufficiente rispondere che di tali fortunate forme di risparmio, al momento, non se ne conoscono.


Non è stata chiesta indennità di occupazione.


Le spese, rapportate ovviamente all’ammontare effettivamente dovuto dell’indennità, non all’importo di gran lunga maggiore preteso in linea principale, seguono la soccombenza. La somma offerta dal Comune, infatti, era in ogni caso inferiore a quella spettante, e ciò ha reso necessaria la causa.


P.Q.M.


Definitivamente pronunciando, determina l’indennità di espropriazione dovuta a Bigagli Bruno nella somma in euro corrispondente a lire 395.000.000, oltre agl’interessi legali dal 26 novembre 2003.


Condanna, conseguentemente, il Comune di Prato a integrare, fino a concorrenza della somma di cui sopra, e dei relativi interessi, il deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti.
Lo condanna altresì al pagamento delle spese processuali, che liquida come segue: euro 450,00 per spese vive, euro 1.500,00 per diritti, euro 3.500,00 per onorari ed euro 625,0 per spese generali, oltre IVA e CAP, ed oltre alle spese di consulenza tecnica d’ufficio, per intero.


Così deciso in Firenze, il 23 maggio 2006.


Il Cons. estensore                              Il Presidente
              Dott. Paolo Occhipinti                        Dott. Giovacchino Massetani


Depositata in cancelleria il 14.07.06 col n. 1402

M A S S I M E

Sentenza per esteso


1) Espropriazione - Aree edificabili - Requisito della edificabilità legale - Aree destinate a verde e a viabilità nell’ambito di zona omogenea edificabile. Indipendentemente dalla finalità assegnata dallo strumento urbanistico al singolo terreno nell’ambito della zona omogenea (edificabile) di cui fa parte, il requisito della edificabilità legale è una conseguenza dell’inclusione nella zona, alla cui caratterizzazione complessiva, e, quindi, alla edificabilità di zona, esso partecipa in maniera essenziale. In altre parole, essendo l’edificabilità della zona dipendente dalla destinazione di certi suoi spazi a verde e a viabilità, questi spazi partecipano del valore di tutta la zona, in quanto senza di essi la zona non potrebbe essere edificata e perderebbe il suo valore di zona edificabile (v., in proposito, Cass. 13.7.2004 n. 12966). Pres. Massetani, Est. Occhipinti - B.B. (avv. Giovannelli) c. Comune di Prato (avv.ti Tognini e Gisondi) - CORTE D’APPELLO DI FIRENZE, Sez. I civile - 14 luglio 2006, n. 1402

 

2) Espropriazione - Aree edificabili - Determinazione dell’indennità - Art. 5 bis della L. n. 359/1192 - Disapplicazione - Sentenza Scordino della Corte Europea per i diritti umani - Valore reale o di mercato del bene. Per effetto della sentenza Scordino del 29.7.2004 della Corte Europea per i diritti dell’uomo, poi confermata dalla decisione della Grande Chambre del 29.3.2006, i principi espressi dalla quale hanno valore vincolante per il giudice nazionale (si veda Cass. 19.7.2002, n. 10542; 15.2.2005, n. 3033, ma anche, nel settore amministrativo, la nuova formulazione dell’art. 1 della L. 241/90, come modificato dalla legge 11.2.2005 n. 15), l’art. 5 bis della L. 8.8.1992 n. 359, di conversione con modifiche del D.L. 11.7.1992 n. 333 non si applica più nella determinazione dell’indennità di espropriazione delle aree edificabili, la quale deve essere, conseguentemente, determinata sulla base del valore reale o di mercato del bene. (Discorso analogo vale, a maggior ragione, per le ipotesi di occupazione illegittima prevedute dal comma 7 bis dello stesso art. 5 bis - v. le sentenze Squadrelli, del 27.2.2005, e Bruzzichelli, del 29.11.2004 della Corte d’Appello di Firenze). Pres. Massetani, Est. Occhipinti - B.B. (avv. Giovannelli) c. Comune di Prato (avv.ti Tognini e Gisondi) - CORTE D’APPELLO DI FIRENZE, Sez. I civile - 14 luglio 2006, n. 1402

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