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Legislazione  Giurisprudenza

 

 

Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso


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 Massime della sentenza

Segnalazione dr. Ottavio Milano


 
(Breve commento: Con due recenti sentenze (allegate) la Corte d'Appello di Firenze (sez.I Civ., nn.1402 e 1403 del 14.07.06) ha disapplicato l'art.5bis, in tema di indennità di esproprio, statuendo che l'indennizzo espropriativo (per espropri legittimi) va liquidato nell'unico modo ritenuto congruo, vale a dire agganciandolo all'integrale valore di mercato del bene. Questa sentenza appare il naturale epilogo di un cammino già intrapreso lo scorso anno dalla stessa Corte con le sentenze nn. 111 e 570/2005, rese però in tema di accessione invertita (ossia espropri illegittimi). Ad ogni buon conto le dette pronunce appaiono un monito per il legislatore nella parte in cui ricordano numerose pronunce (emanate ed emanande) della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, i cui principi non possono ulteriormente essere disattesi dal nostro Ordinamento senza con ciò provocare gravi danni all'erario). dr. Ottavio Milano

 

Corte di Appello di Firenze - Sez. I Civile -  14 luglio 2006 (Ud. 2/06/2006), Sentenza n. 1403
 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Firenze, sezione PRIMA CIVILE, composta dai magistrati:
 

Dott. Giovacchino Massetani Presidente
Bruno Rados Consigliere
Dott. Paolo Occhipinti Consigliere Rel.
ha pronunciato la seguente:


SENTENZA


nella causa civile iscritta al n. 797/00 + 982/00 del ruolo generale degli affari contenziosi civili e vertente tra:
TREMOLANTI CARLO, BARSOTTI FRANCO, BARSOTTI PAOLA, TREMOLANTI MARCO elettivamente domiciliati in Firenze V.Le Mazzini 60 presso e nello studio dell'Avv.to Viciconte Gaetano che li rappresenta e difende come da delega a margine dell'atto di citazione.


Attori


E


COMUNE PISA in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Firenze Via Duca D’Aosta N° 2 presso lo studio dell’Avv. Graziella Ferraroni rappresentato e difeso dall'Avv.to Lazzeri Gloria e Graziella Ferraroni del Servizio Legale Avvocatura come da procura generale alle liti notaio Emilio Luccarelli di Pisa del 11.01.99 Rep. 23405;


Convenuto


All’udienza del 12-12-2005 la causa passava in decisione sulle seguenti conclusioni.


Conclusioni delle parti.


Per gli attori: Accertare il giusto valore dell’indennità di esproprio; condannare il Comune di Pisa al deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti dell’indennità definitiva di esproprio, per la somma risultante a seguito dell’espletamento della seconda perizia redatta dall’ing. Ghio, senza l’applicazione dell’abbattimento del 40%, oltre interessi e rivalutazione monetaria, ovvero per la somma, maggiore o minore, che sarà ritenuta di giustizia; condannare il Comune di Pisa al deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti dell’indennità di occupazione temporanea degl’immobili espropriati per la somma risultante a seguito della seconda perizia, redatta dall’ing. Ghio, oltre interessi e rivalutazione monetaria, ovvero per la somma, maggiore o minore, che risulterà di giustizia; accertare il valore dell’indennità aggiuntiva di cui all’art. 17 comma 2 della L. 865/1971 spettante alla sig.ra Paola Barsotti e conseguentemente condannare il Comune di Pisa al pagamento in favore della stessa, oltre interessi e rivalutazione. Condannare il Comune di Pisa al pagamento in favore degli opponenti dell’indennità di cui all’art. 46 L. 25.6.1985 n. 2359 con riferimento alle particelle 44,40-46, secondo la quantificazione stabilita dal c.t.u. ing. Ghio, oltre interessi e rivalutazione monetaria; respingere le domande avversarie sia istruttorie che di merito; condannare il Comune al pagamento delle spese processuali.


Rigettare le domande. In subordine, riconoscere che la somma spettante agli attori è pari a quella che si ricava dai calcoli svolti dal geom. Ricoveri. Con vittoria di spese ed onorari.


Svolgimento del processo


Con citazione notificata il 10.5.2000 Tremolanti Carlo, Tremolanti Marco, Barsotti Franco e Barsotti Paola convenivano avanti a questa Corte il Comune di Pisa per chiedere la determinazione dell’indennità di espropriazione e di quella di occupazione di un’area, risultata di mq. 7.074, posta in territorio di Pisa, località Ospedaletto, espropriata con deliberazione comunale del 22.9.1999 per la realizzazione di alloggi di edilizia economica e popolare. Facevano presente gli attori di essere i primi due proprietari, e i secondi due usufruttuari dei terreni espropriati e, in particolare, che la Barsotti Paola si occupava personalmente, in quanto coltivatrice diretta, della coltivazione di alcuni di tali terreni. Con lo stesso atto la Barsotti domandava, perciò, la corresponsione della indennità aggiuntiva di cui all’art. 17, comma 2, della legge 865/1971, e tutti, inoltre, la corresponsione dell’indennità di cui all’art. 46 della legge 2359/1865. Lamentavano, a motivo della pretesa, la totale inadeguatezza della indennità provvisoria proposta dal Comune espropriante, corrispondente ad un valore di lire 24.969 al mq.


Il Comune resisteva alla domanda, esponendo di avere determinato l’indennità provvisoria, depositata alla Cassa Depositi e Prestiti con la decurtazione del 40% per la mancata accettazione degl’interessati, sulla base dei criteri previsti dall’art. 5 bis della legge 359/1992, e partendo da un valore venale del terreno, appunto in quanto edificabile, di lire 65.000 al mq. Osservava, inoltre, che i terreni residui degli espropriati non avevano subito alcuna interclusione, per cui non spettava l’ulteriore indennità, mentre, per quanto riguardava la Barsotti, il carattere edificabile dei terreni, come tali valutati, non consentiva il riconoscimento di indennità al coltivatore diretto.


La Corte disponeva una prima consulenza tecnica, che, di seguito alle articolate osservazioni mosse dalle parti, veniva rinnovata mediante altro consulente. La causa veniva quindi posta in decisione sulle conclusioni sopra trascritte.


Motivi della decisione


1. L’edificabilità dei terreni degli attori, oggetto di espropriazione, non è in discussione, stante che anche il Comune, già in fase amministrativa nel determinare l’indennità provvisoria, ha fatto, e tuttora fa, riferimento ai criteri di determinazione previsti per le aree edificabili dall’art. 5 bis della legge 8.8.1992 n. 359, che ha convertito, con modificazioni, il decreto legge 11.7.1992 n. 333. Anche la Commissione Provinciale, determinando l’indennità definitiva, aveva riconosciuto il carattere di edificabilità dell’area. Il rinnovo delle operazioni di consulenza tecnica è stato disposto appunto per il fatto che il primo c.t.u., in discrasia con l’orientamento di entrambe le parti, aveva valutato i terreni espropriati alla stregua di terreni agricoli, anziché edificabili. Non serve, perciò, attardarsi a disquisire sulla questione, ormai avviata a soluzione positiva dalla giurisprudenza della Suprema Corte, della natura edificabile o meno delle aree incluse, come quella per cui è causa, in un piano di edilizia economica e popolare. “L’inclusione di un’area nel piano di zona per l’edilizia economica e popolare implica, anche ove l’originaria zonizzazione del piano regolatore generale ne comportasse la qualificazione come suolo agricolo, che, in virtù della variante introdotta dal peep (che in tale parte va considerato strumento programmatico e conformativo), la stessa abbia acquisito carattere di edificabilità, e che la determinazione dell’indennità di esproprio debba adottare il criterio dell’art. 5 bis, comma 1, legge 8 agosto 1992 n. 359, restando irrilevante che nel contesto del peep l’area sia destinata ad usi che non comportano specifica realizzazione di opere edilizie (verde pubblico, viabilità di p.r.g.), giacché in tale contesto l’edificabilità va commisurata ad indici medi di fabbricabilità, correlati (o correlabili) al totale della superficie al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi, ove non si ritenga di stimare il terreno ricorrendo a criteri comparativi basati sul valore di aree omogenee” (Cass. 3.6.2004 n. 10555). Perciò, la tesi del consulente di parte del Comune, secondo la quale il valore del terreno dovrebbe essere calcolato con riferimento al momento dell’apposizione del vincolo espropriativio (quando esso aveva una edificabilità poco significativa), anziché al momento dell’espropriazione, non può essere condivisa.


Ciò chiarito, e passando alla determinazione del valore dell’area, il c.t.u. ing. Ghio ha valutato in complessive lire 1.615.770.000, pari ad euro 834.475,56 tale area, tenendo conto dell’indice di edificabilità e precisando che i valori unitari per mq. applicati “sono in linea, con i valori medi di mercato, attribuiti per lo stesso periodo, dal Comune di Pisa ai fini dell’applicazione ICI per aree con tali destinazioni edificatorie”. In sostanza, il c.t.u. ha riconosciuto al suolo in questione un valore venale medio di circa 230.000 al mq., cifra che corrisponde, grosso modo, ai valori stabiliti dal Comune di Pisa ai fini dell’ICI per le aree aventi un uguale indice di fabbricabilità, ma non ricadenti all’interno di un piano di edilizia economica e popolare (per questi ultimi i valori assegnati dalla Giunta Comunale si approssimano al valore agricolo). Ora, se l’inclusione di un terreno all’interno di un peep impone, come si è visto, di considerare il terreno stesso edificabile, ed edificabile in base agl’indici relativi allo stesso peep, questo potrebbe non significare che il terreno debba valere, in un sistema di libero mercato, quanto un terreno residenziale con lo stesso indice di fabbricabilità ma non soggetto al vincolo peep. E’ un dubbio che lo stesso consulente di parte attrice (arch. Bargellini) saggiamente si è posto, sia pure per giungere all’affermazione che “l’unica differenza”, fra l’area libera e l’area inclusa nel peep, “è che il progetto deve essere di iniziativa pubblica”, nel senso che, se non anche redatto dalla pubblica amministrazione, quanto meno, deve essere recepito in un suo specifico atto. Non è, probabilmente, una differenza trascurabile, all’interno di una ricerca basata su valori di puro mercato, soprattutto se si considera che gl’insediamenti per edilizia economica e popolare sogliono ricadere su aree non di particolare pregio, quasi sempre limitrofe alla campagna, quando non proprio di vera e propria campagna; in senso contrario, tuttavia, si deve considerare, intanto, che i valori tabellari a cui ha fatto riferimento il c.t.u. ing. Ghio nel determinare quello del terreno in questione, sono già valori medi, stabiliti per indici di edificabilità, e perciò tendenzialmente equidistanti fra i terreni di maggiore e quelli di minore appetibilità commerciale; e poi si deve considerare che trattasi di valori tabellari stabiliti ai fini dell’ICI, e perciò notoriamente prudenziali (il valore ICI delle aree edificabili non dipende dai valori catastali), approssimati per difetto, piuttosto che per eccesso. In conclusione, quindi, non si apprezzano ragioni valide per dubitare che la valutazione di mercato compiuta dall’ing. Ghio, pari ad un valore medio di lire 230.000 al mq., corrisponda alla realtà.


2. Stabilito il valore venale del terreno, è noto che per determinare l’indennità di espropriazione, secondo la normativa nazionale applicabile alla fattispecie, ossia l’art. 5 bis della L. 8.8.1992 n. 359, di conversione con modifiche del D.L. 11.7.1992 n. 333, occorrerebbe, trattandosi di area edificabile, sommare al valore venale, come sopra accertato, la somma dei redditi dominicali, rivalutati ai fini fiscali, degli ultimi dieci anni e dividere per due, in modo da avere la media dei due valori; sul risultato si dovrebbe, poi, applicare la riduzione del 40%, non essendo stata convenuta la cessione volontaria del bene. Il risultato andrebbe ulteriormente sottoposto alla verifica prevista dall’art. 16 del D.Lgs. 30.12.1992 n. 504, per il quale l’indennità di espropriazione non può, in ogni caso, superare il valore del terreno dichiarato dal proprietario ai fini dell’imposta comunale sugl’immobili (ICI). Come è noto, nella generalità dei casi - ed il presente non fa eccezione - l’applicazione di questi correttivi del valore di mercato dell’area espropriata porta alla determinazione di un’indennità di espropriazione notevolmente inferiore a tale valore, valutabile mediamente intorno al 30% del valore effettivo.


Ora, va premesso, a quanto si sta per dire, che la richiesta dell’attore di determinare l’indennità in una misura anche maggiore di quella risultante dalla consulenza tecnica lascia libera la Corte di affrontare il tema decisionale anche articolando argomentazioni nuove, sempre nel rispetto della causa petendi e del petitum processuale.


Sono note le vicende - responsabili di un fitto contenzioso - che hanno preceduto, accompagnato e seguito l’iter esistenziale dell’art. 5 bis, norma sorta per rimediare ad una incostituzionalità (quella per la quale, in sede di esproprio, i terreni edificabili si dovessero valutare come se fossero terreni agricoli) con un’altra incostituzionalità, meno grossolana, ma più sottile e artificiosa, sufficiente a guadagnarsi l’assoluzione della nostra Corte Costituzionale (sentenza n. 283 del 16.6.1993 e successive), ma con una sorta di raccomandazione penitenziale di una “sempre auspicata” revisione della normativa, raccomandazione puntualmente rinnovatasi ad ogni nuova occasione (2.11.1996 n. 369; 30.4.1999 n. 148; 11.7.2000 n. 262; 19.7.2000 n. 300). Il dubbio d’incostituzionalità, come è parimenti noto, veniva agitato principalmente in relazione all’art. 42 della Costituzione, che riconosce il diritto del proprietario espropriato all’indennizzo, oltre che sul versante dell’uguaglianza fra i cittadini, compromessa dalla inadeguatezza dell’indennizzo, il che significherebbe che l’interesse generale, giustificativo dell’espropriazione, verrebbe pagato da alcuni a vantaggio della generalità.


Sembra, oggi, potersi dire che questa regola dell’art. 5 bis abbia fatto il suo tempo, così come l’intero costrutto tematico tessuto per anni su di essa dalla giurisprudenza italiana, inclusa la giurisprudenza costituzionalistica, e che ha segnato il livello critico della cultura giuridica nazionale, essendovi implicato il fondamentale concetto del diritto di proprietà e il connesso problema dell’equilibrio fra interessi privati e interessi pubblici. Già con la decisione del 29.7.2004, emessa nel ben noto affaire Scordino, la Corte Europea per i diritti dell’Uomo aveva segnalato la défaillance contenuta nel sistema del citato art. 5 bis, per il fatto di non essere in grado di assicurare un equo indennizzo per la proprietà espropriata; con decisione unanime del 29.3.2006, emessa su ricorso del Governo italiano, la Grande Chambre della Corte Europea, nel confermare la precedente decisione, ha ulteriormente stigmatizzato, tanto sul piano normativo quanto su quello giurisprudenziale, la renitenza dell’Italia verso il principio fondamentale, riferibile all’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, del diritto del proprietario espropriato ad un giusto indennizzo, in sostanza la renitenza ad accettare, nella sua interezza, il concetto del diritto di proprietà come riconosciuto universalmente nell’ambito comunitario. “La Cour ( ... ) dit qu’il a eu violation de l’article 1 du Protocole n° 1 à la raison du caractère inadéquat de l’indemnité d’expropriation”, dando così ragione agli attori, che si erano lamentati, a fronte di un grave sacrificio dei loro beni, di avere avuto dallo Stato italiano un indennizzo “ridicule”.


C’era, per la verità, da attendersi, prima o poi, e forse anche da auspicarsi, dalla Comunità degli Stati un giudizio di questo tipo, mortificante - bisogna riconoscerlo - per le istituzioni nazionali, che si sono viste dare seccamente torto nello scontro diretto contro i propri stessi cittadini (e la stessa Corte europea non ha mancato di avvisare che controversie di questo genere se ne preparano a iosa) su un punto concernente uno dei diritti fondamentali dell’individuo: indizio preoccupante di una situazione di scollamento fra istituzioni e collettività, in ordine alla quale, forse, e certamente stando al giudizio della Corte europea, la condotta della nostra Corte Costituzionale avrebbe potuto e dovuto essere un’altra. Il disagio era però nell’aria: le liti per la determinazione dell’indennità erano divenute oramai un travaglio massacrante e incredibilmente dispendioso (una, due perizie giudiziali, quando non di più, con altrettante perizie di parte, da moltiplicarsi per il numero delle parti: basti pensare che l’espropriazione Scordino, risoltasi finalmente quest’anno, e nel modo che sappiamo, era cominciata nel 1981!), “lunare” per tutti, non solo per il diretto interessato, ossia il cittadino, ma per la giurisprudenza, massimamente quella della Cassazione, costretta a perseguire l’obiettivo di un risultato di equità - il giusto indennizzo - sulla base di indici di un’equità puramente convenzionale, se non addirittura cervellotica, e perciò inesistente, con interminabili disquisizioni e ripensamenti su riduzioni e maggiorazioni, quando del 40, quando del 50, quando del 20, quando del 10 per cento, sulla edificabilità dei suoli, di diritto, di fatto, di tertium genus, sulla natura dei vincoli, conformativi - espressione di arduo significato che nemmeno si trova nel vocabolario della lingua italiana, almeno in quelli di cui la generalità degl’italiani si serve - ed espropriativi, sulle decorrenze; perfino forgiando istituti inauditi, come l’occupazione appropriativa - altra invenzione già due anni fa bocciata dalla Corte europea alla stregua di un escamotage per eludere le conseguenze di un illecito vero e proprio - e giungendo ad affermare, a proposito dell’ICI, al cui valore dichiarato l’indennità dovrebbe ridursi, che è giusto che la riduzione castighi l’evasore parziale, ma non l’evasore totale, ossia colui il quale, piuttosto che denunciare poco, non denuncia niente, e ciò grazie alla singolarissima motivazione che con tale norma (l’art. 16 del D.Lgs. 30.10.1992 n. 504) il legislatore avrebbe “inteso introdurre un elemento dissuasivo non dell’evasione totale ( ... ) bensì dell’elusione fiscale che si manifesta col dichiarare valori per le aree edificabili di gran lunga inferiori a quelli collegati al valore venale”, e facendo passare del tutto, a chi ancora ne avesse un poco, la voglia di esporsi al fisco.
Tutto questo, finalmente - ed a prescindere dagli orizzonti nuovi che potranno aprirsi con la più recente normativa nazionale - dovrebbe essere finito. Le perplessità, manifestate anche da organi come il Consiglio di Stato (sez. IV, 10.8.2004 n. 5499) riguardo alla operatività immediata nell’ordinamento interno delle norme comunitarie e al loro valore vincolante per il giudice nazionale, già da tempo sono state superate dalla Suprema Corte, la quale appare definitivamente orientata a riconoscere che “l’applicazione della convenzione, ove incorporata nel diritto interno, può comportare la disapplicazione delle norme interne ritenute incompatibili, senza attendere l’intervento adeguatore del potere legislativo” (Cass. 19.7.2002 n. 10542), e che il “decisum della Corte europea funge da insostituibile contributo interpretativo delle norme europee di salvaguardia dei diritti umani” (Cass. 15.2.2005 n. 3033; ma già Cass. 18.5.1999 n. 4817 affermava che “il giudice nazionale deve disapplicare le norme interne per incompatibilità con il diritto comunitario”). Anche le Sezioni Unite della Cassazione (6.5.2003 n. 6853; 14.4.2003 n. 5902), come già il Giudice delle leggi con la sentenza 19.1.1993 n. 10, hanno riconosciuto il carattere di norme primarie, all’interno del nostro ordinamento, della normativa comunitaria per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, sia pure attraverso la mediazione di una specifica legge nazionale di recepimento della convenzione stessa, mediazione che non appare più necessaria, almeno per effetto della legge 11.2.2005 n. 15, la quale ha sancito, se non confermato, l’ingresso ufficiale dei principi dell’ordinamento comunitario nel diritto amministrativo italiano, modificando nei seguenti termini l’art. 1 della legge 7.8.1990 n. 241: “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”. D’altra parte, è stato ripetutamente notato come sarebbe non solamente illogico, ma anche inutile ed anzi dannoso economicamente, che il giudice nazionale insistesse in una condotta giurisprudenziale sconfessata dalla Corte europea e foriera per lo Stato di responsabilità patrimoniale nei confronti dello stesso cittadino, a parte la più alta responsabilità, anche di ordine politico, nei confronti della Comunità degli Stati.
Col suo argomentare sull’affaire Scordino, la Grande Chambre della Corte europea per i diritti dell’Uomo ha avuto facile giuoco nel dimostrare la deliberata ed ingiustificata pervicacia con cui la normativa italiana, ossia, nel caso specifico, l’art. 5 bis in questione, rifiuta, come sistema, l’equivalenza dell’indennizzo al valore del bene espropriato, negando una “indemnité d’expropriation raisonnablement en rapport avec la valeur du bien”, e, per quanto la stessa Corte europea si sforzi di compenetrarsi nelle particolari esigenze d’interesse pubblico a cui ha dato peso la Corte Costituzionale italiana nelle sue varie decisioni in materia, essa esclude categoricamente che queste esigenze possano gravare genericamente sulla sorte di ogni singola espropriazione: cosicché “la Cour est de l’avis que le faites de la cause révèlent dans l’ordre juridique italien une défaillance, en consequence de laquelle une catégorie entière de paticuliers se sont vues et se voient toujours privés de leur droit au respect de leurs biens”, concludendo per un riconoscimento al titolare del diritto leso, di un “dommage matérial” pari, in sorte capitale, al valore del bene perduto, oltre agli accessori e al “dommage moral”. Infine, la singolare raccomandazione allo Stato italiano, non senza un interesse per la stessa Corte europea, di eliminare la défaillance, “de talle sorte que le système instauré par la Convention ne soit compromis par un gran nombre de requerts résultant de la meme causa”: come dire: affrettatevi, o soffocheremo tutti.


E’ importante notare, nel ragionamento seguito dalla Grande Chambre, la condivisibile osservazione della improponibilità, ai fini della quantificazione dell’indennità, di un bilanciamento fra gli effetti privatistici prodotti dalla singola espropriazione (“expropriation isolée”) e l’interesse pubblico, quasi che quest’ultimo potesse dipendere dal tira e molla su una manciata di soldi fra l’ente pubblico e il cittadino, mentre diversamente parrebbe doversi porre il discorso per operazioni su larga scala, impegnanti, da un lato, una quota rilevante delle risorse economiche pubbliche e, dall’altro lato, estesi comparti territoriali e non proprietà isolate, e nelle quali l’obbligatorietà della remunerazione piena potrebbe rappresentare un ostacolo insuperabile per il perseguimento della pubblica utilità (fu, appunto, in una situazione di questo tipo, che nacque la legge 15.1.1885 n. 2892, per il risanamento della città di Napoli colpita dal colera, e che era destinata a fare da modello all’attuale art. 5 bis, anche se il colera era scomparso da più di un secolo). Al che sarebbe semplicistico obiettare che l’agevolazione degli espropri, voluta, appunto, dall’art. 5 bis della legge del 1992, “recante misure urgenti per la finanza pubblica”, s’inquadrerebbe in un programma di misure straordinarie per il rilancio degl’investimenti: basterebbe replicare, al riguardo, che il carattere di straordinarietà della norma risulta contraddetto dalla gittata temporale della quale questa norma, con l’ausilio della Corte Costituzionale, si è mostrata capace. Ciò che, effettivamente, appare inaccettabile, alla luce della giurisprudenza europea, e, possiamo aggiungere, alla luce della nostra stessa Costituzione, è il pretendere, come principio di salvaguardia dell’interesse pubblico, che il costo di esproprio delle aree urbane debba necessariamente essere inferiore al loro valore venale, quasi che il solo fatto di essere proprietario di un’area edificabile contenesse già in sé stesso delle ragioni di danno per la collettività.


Da tutto questo si può anche intuire quale grado di utilità potrebbe sortire il tornare ancora una volta (come è avvenuto ultimamente con ordinanza 6.5.2006 della Cassazione) a rimettere la questione nelle mani della Corte Costituzionale, quando già si sa da una fonte superiore come ci si deve regolare di fronte alle pronunce di quest’ultima.


Il risultato di tutto ciò è che l’art. 5 bis, con i suoi criteri di mortificazione del diritto dell’espropriato (il discorso vale, a maggior ragione, per le ipotesi di occupazione illegittima prevedute dal comma 7 bis dello stesso art. 5 bis, in ordine alle quali ha già avuto modo di pronunciarsi questa Corte fiorentina con le sentenze Squadrelli, del 27.2.2005, e Bruzzichelli, del 29.11.2004), non si applica più nella determinazione dell’indennità di espropriazione delle aree edificabili, la quale deve essere, conseguentemente, determinata sulla base del valore reale o di mercato del bene, come avviene, d’altronde, per i fabbricati.


Sul piano giuridico, pertanto, non sembra che siano percorribili altre strade che questa. Sul piano pratico, almeno della pratica giudiziaria, è innegabile il vantaggio di essersi liberati, speriamo per sempre, da quelle complicate ed interminabili disquisizioni delle quali, al di là di ogni loro merito culturale e scientifico, è certo che il diretto interessato, colui al quale quelle disquisizioni s’intendevano indirizzate, e cioè il cittadino medio, diciamolo onestamente, non ci ha mai capito nulla.


(E poi, anche se questo non ha un rilievo diretto ai fini del giudizio, ci si lamenta che in Italia esiste un tasso di litigiosità troppo alto, scaricando sulla collettività una colpa della quale essa è proprio la vittima, e studiando ad ogni occasione di riforma non i marchingegni perché la gente smetta di litigare, ma perché litighi più in fretta, come se si pensasse di risolvere il problema di una letale epidemia allargando il cimitero).


3. Venendo alla indennità di occupazione, l’impostazione teorica ora seguita per determinare quella di espropriazione, non crea condizioni d’incompatibilità con il criterio, di origine giurisprudenziale, che fino ad ora ha agganciato l’indennità di occupazione a quella di espropriazione, configurando la prima in termini di perduta fruttificazione dell’importo corrispondente alla seconda, e commisurando tale perdita, orientativamente (ma non in maniera tassativa, come avvisa Cass. 19.4.2005 n. 8197 e Cass. 4.4.2003 n. 8197) agl’interessi legali maturati dall’inizio dell’occupazione a quello di perdita nominale della proprietà. In questo, la giurisprudenza ha da sempre considerato l’indennizzo da occupazione (legittima) non come satisfattivo di un danno di mancato utilizzo del bene (danno che sovente, spesso per le aree edificabili, è insignificante), ma satisfattivo del mancato utilizzo dell’indennità di esproprio, conseguita con ritardo rispetto alla perdita di fatto del diritto. In sostanza, sembra potersi teorizzare che, con l’occupazione (legittima, e, in ordine a questo discorso, il fatto che essa sia tale, cioè legittima, non è senza rilievo), il privato acquisisca l’aspettativa giuridica al conseguimento di un’indennità di esproprio, non
esigibile non per fatto proprio, ma per fatto dell’amministrazione, cui spetta determinarla e liquidarla al più presto. In altre parole, non può pesare sull’espropriato la dissociazione - peraltro talora resa ineluttabile da situazioni di emergenza - fra momento occupazionale e momento espropriativo. La situazione, in qualche modo, è paragonabile al risarcimento del danno spettante al promittente venditore per il ritardato pagamento del prezzo, nell’ipotesi in cui, con il preliminare, abbia perduto il godimento del bene. La difficoltà dell’essere, solitamente, l’indennità di esproprio determinata con riferimento ai valori del tempo in cui il decreto si espropriazione viene emesso, è superabile riducendone l’importo del corrispondente tasso di deflazione ISTAT.


Nel caso di specie, applicando il tasso d’inflazione intercorso fra i due momenti (2,61 per cento) la base di calcolo degl’interessi, al fine di determinare l’ indennità di occupazione, è pari lire 1.574.800.000 (cifra arrotondata). Considerato che l’interesse legale era del 5% annuo fino al 31 .12.1998 e del 2,5% dopo questa data, l’indennità stessa risulta essere di lire 101.283.366, pari ad euro 52.308,49.


Per quanto riguarda l’indennità aggiuntiva pretesa da uno degli attori per effetto della sua qualità di coltivatore diretto, essa è chiaramente incompatibile con il carattere di edificabilità del terreno, in virtù del quale gli espropriati si trovano a conseguire un’indennità largamente maggiore di quella che la destinazione agricola avrebbe potuto consentire.


Per quanto riguarda, infine, l’indennità ex art. 46 della legge 25.6.1865 n. 2359, richiesta per la interclusione relativa sofferta a seguito dell’esproprio dai terreni residui degli attori, segnatamente le particelle 44, 40 e 46, entrambi i consulenti tecnici d’ufficio concordano nel ritenere che il deprezzamento ci sia stato, diversa essendo la quantificazione proposta da ciascuno. Il deprezzamento nasce dal fatto che, venendo a mancare agli attori il vasto quadrilatero prospettante su via Le Rene, l’ingresso alle residue porzioni ad esso retrostanti non può avvenire che dalla via Emilia, attraverso un complicato itinerario, sviluppantesi in parte su una corte comune, e che praticamente le attraversa tutte nel senso della lunghezza. In particolare, la particella 40, non solo ha perduto il vantaggio di potere essere raggiunta da entrambe le direzioni, ma adesso risulta necessariamente sacrificata per fornire accesso alla ex 691, la quale, a sua volta, di forma stretta e lunga, ha perso la contiguità con la maggior proprietà degli attori - il quadrilatero che dava su via Le Rene - riducendosi ad uno spezzone di circa m. 20 x 90, di difficile utilizzazione, specialmente da un punto di vista urbanistico. Si ritiene, perciò, congruo il deprezzamento complessivo di euro 30.000,00 stabilito dall’ing. Ghio.


L’ammontare delle indennità, espropriativa, di occupazione e di ulteriore danno, pertanto, è quello come sopra stabilito, e cioè, rispettivamente, euro 834.475,56, euro 52.308,49 ed euro 30.000,00. I primi due crediti sono crediti di valuta, pertanto non soggetti a rivalutazione monetaria (Cass. 20.3.2003 n. 4070 ed altre), salvo dimostrazione, qui mancante, di ulteriore danno ai sensi del secondo comma dell’art. 1224 c.c., ma sono produttivi d’interessi legali, con decorrenza dalla data dell'esproprio (Cass. 28.1.2005 n. 1823; Cass. 27.1.2005 n.1701). L’indennità di cui all’art. 46 delle legge del 1985, per contro, darebbe luogo ad un credito di valore (Cass. 9.3.2004 n. 4720), soggetto, in quanto tale, a rivalutazione monetaria e ad interessi legali sull’importo rivalutato, alla stregua di un credito da risarcimento.


Infine, le spese processuali sono da porre interamente a carico dell’Amministrazione convenuta. Va tenuto presente, al riguardo, che la somma offerta in fase amministrativa è risultata pari ad un quinto circa dell’importo effettivamente dovuto. Non sembra, inoltre, che possa avere rilievo, sempre ai fini delle spese, il rigetto della domanda d’indennità aggiuntiva di Barsotti Paola, dal momento che, in ogni caso, essa viene a conseguire, come espropriata, somma di gran lunga maggiore di quella offerta dal Comune.


P.Q.M.


La Corte, definitivamente pronunciando, respinta ogni diversa richiesta, eccezione e difesa, determina l’indennità di espropriazione in euro 834.475,56, l’indennità di occupazione in euro 101.283,366,00 e l’indennità di cui all’art. 46 della legge 25.6.1865 n. 2359 in euro 30.000,00.


Conseguentemente, condanna il Comune di Pisa ad integrare il deposito alla Cassa Depositi e Prestiti in favore degli attori per indennità di espropriazione e per indennità di occupazione fino a concorrenza degli importi rispettivamente sopra stabiliti, maggiorati degl’interessi legali maturati, a decorrere dal 22 settembre 1999, sulla differenza fra il dovuto e quanto già depositato.


Condanna il Comune di Pisa a pagare agli attori, per indennità di cui all’art. 46 della legge 25.6.1985 n. 2359, la somma di euro 30.000,00 oltre alla rivalutazione monetaria secondo gl’indici ufficiali ISTAT, a decorrere dal 22 settembre 1999, ed oltre agl’interessi legali sugl’importi anno per anno rivalutati, con la stessa decorrenza.


Rigetta la domanda di liquidazione di indennità aggiuntiva ai sensi dell’art. 17 della legge 22.10.1971 n. 865, proposta da Barsotti Paola.


Condanna, infine, il Comune di Pisa al pagamento delle spese processuali in favore degli attori, che liquida come segue: euro 433,80 per spese vive, euro 4.500,00 per diritti, euro 13.500,00 per onorari ed euro 2250,00 per spese generali, oltre IVA e CAP. Pone interamente a carico del Comune di Pisa le spese di consulenza tecnica d’ufficio.

Così deciso in Firenze, il 2 giugno 2006.


Il Cons. estensore                              Il Presidente
Dott. Paolo Occhipinti                         Dott. Giovacchino Massetani


Depositata in cancelleria il 14.07.06 col n. 1403

M A S S I M E

Sentenza per esteso


1) Espropriazione - Aree edificabili - Determinazione dell’indennità - Art. 5 bis della L. n. 359/1192 - Disapplicazione - Sentenza Scordino della Corte Europea per i diritti umani - Valore reale o di mercato del bene. Per effetto della sentenza Scordino del 29.7.2004 della Corte Europea per i diritti dell’uomo, poi confermata dalla decisione della Grande Chambre del 29.3.2006, i principi espressi dalla quale hanno valore vincolante per il giudice nazionale (si veda Cass. 19.7.2002, n. 10542; 15.2.2005, n. 3033, ma anche, nel settore amministrativo, la nuova formulazione dell’art. 1 della L. 241/90, come modificato dalla legge 11.2.2005 n. 15), l’art. 5 bis della L. 8.8.1992 n. 359, di conversione con modifiche del D.L. 11.7.1992 n. 333 non si applica più nella determinazione dell’indennità di espropriazione delle aree edificabili, la quale deve essere, conseguentemente, determinata sulla base del valore reale o di mercato del bene. (Discorso analogo vale, a maggior ragione, per le ipotesi di occupazione illegittima prevedute dal comma 7 bis dello stesso art. 5 bis - v. le sentenze Squadrelli, del 27.2.2005, e Bruzzichelli, del 29.11.2004 della Corte d’Appello di Firenze). Pres. Massetani, Est. Occhipinti - T.C. (avv. Viciconte) c. Comune di Pisa (avv.ti Lazzeri e Ferraroni) - CORTE D’APPELLO DI FIRENZE, Sez. I civile - 14 luglio 2006, n. 1403

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