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Giurisprudenza

 

Urbanistica

 

2002 -2001 - 2000 - 1999-98
 

Vedi sullo stesso argomento le massime degli anni

 

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(N.B.: queste pagine continueranno ad essere aggiornate)

 

Si veda anche: Espropriazione

 

 

Abuso d'ufficio - illegittimità delibera - truffa - falso in atto pubblico - peculato - responsabilità - termini - verbali...

Ristrutturazione - restauro - ricostruzione - distanze - manutenzione - espropriazione - indennizzo - incarichi - responsabilità...

 

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 <  indice urbanistica

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Abuso d'ufficio - illegittimità delibera - truffa - falso in atto pubblico - peculato - verbali...  

Falsa dichiarazione sulla data di ultimazione lavori - Urbanistica - Falsa dichiarazione resa dal privato - Tentativo di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale - Sussistenza - Esclusione - Condizioni - Fattispecie: false dichiarazioni del privato sulla data di conclusione dei lavori, rilevante ai fini dell'applicabilita' del condono edilizio. Non sussiste il tentativo di falsita' ideologica del pubblico ufficiale (art. 56,48 e 480 cod. pen.) allorche' quest'ultimo non si sia determinato, in conseguenza delle false dichiarazioni rese dal privato, a porre in essere una condotta qualificabile come atto idoneo e diretto in modo non equivoco alla emissione del provvedimento ideologicamente falso, in quanto solo gli atti del pubblico ufficiale conseguenti all'induzione in inganno possono assurgere ad elemento del tentativo del falso del pubblico ufficiale e non gia' il mero inganno del privato che puo' integrare un diverso autonomo reato. Ne consegue che le false dichiarazioni del privato, in ordine alla conclusione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per l'applicabilita' del condono edilizio, non costituiscono atti idonei ad indurre i competenti organi comunali al rilascio di una falsa concessione in sanatoria allorche' l'induzione in errore non si sia verificata e l'autorita' competente, lungi dal predisporre (pur senza pervenire all'emissione) il provvedimento di concessione edilizia o, comunque, qualche altra attivita' preliminare finalizzata all'emissione dello stesso, abbia emesso, a seguito dei necessari accertamenti, ordinanza di demolizione del manufatto. Cassazione Penale sezione V del 10/12/2002 (UD.23/09/2002), Sentenza n. 41205

Tecnico comunale – Ordinazione informale di lavori di somma urgenza – Omessa regolarizzazione entro i successivi trenta giorni – Pagamento di somme ulteriori rispetto alla sorte capitale – Responsabilità – Sussistenza. Sussiste la responsabilità del tecnico comunale che commissioni informalmente ad una impresa privata lavori di somma urgenza (nella fattispecie, riparazione di un tratto della rete fogniaria del Comune) non provvedendo entro i successivi trenta giorni a richiedere la regolarizzazione della spesa - con violazione di un obbligo espressamente previsto dall’ordinamento contabile degli enti locali a garanzia della corretta gestione della spesa pubblica (in particolare, dagli artt. 23 dl d.l. n.66/1989 e 191 del d.lgv n.267/2000) – e provocando in tal modo spese ulteriori rispetto alla sorte capitale. Pres. Topi – Rel. Aloisio – P.M. Carra. CORTE DEI CONTI - Sezione Giurisdizionale per la Regione siciliana 25 settembre - 13 ottobre 2002

Denuncia di inizio di attività (Dia). Gli orientamenti consolidati della giurisprudenza amministrativa hanno chiarito che nell'ambito di interventi di manutenzione straordinaria, di  restauro e risanamento conservativo è ben possibile realizzare opere interne di consolidamento statico che non determinino la variazione dell'aspetto esterno, delle dimensioni e della destinazione del manufatto.  Consiglio di Stato, sezione V, 6 luglio 2002, n. 3715  

L’atto di annullamento del nulla osta paesaggistico - l’autorizzazione illegittima per sviamento o travisamento - la valutazione comunale non accorta. L’annullamento è giustificato, secondo un consistente orientamento, quando, per la mancata considerazione di un rilevante elemento di fatto, la valutazione di compatibilità si traduca in obiettiva deroga, in un’autorizzazione illegittima per sviamento o travisamento (CdS VI 13/2/2001 n.685; CdS II 10/1/2001 n.1614; CdS VI 8/8/2000 n.4345; CdS VI 6/7/2000 n.3793; CdS II 31/3/1999 n.268; CdS IV 4/12/1998 n.1734; CdS VI 9/4/1998 n.460; CdS VI 17/4/1997 n.609; CdS VI 19/7/1996 n.968). In sostanza ciò che si può intendere come obiettiva deroga del vincolo, non rientrante nella causa tipica del potere di autorizzazione ex art.7 della legge n.1497/1939, è la valutazione comunale non accorta che non prende le mosse dal vincolo per effettuare un giudizio di compatibilità, ma si sovrappone al vincolo medesimo, stabilendo una deroga o eccezione non consentita che ne oblitera la ratio, con ciò provocando un’alterazione degli equilibri ambientali e paesaggistici che il vincolo mira a conservare e proteggere. Consiglio di Stato, sezione VI, 6 settembre 2002, n. 4561 (vedi: sentenza per esteso)

Ristrutturazione edilizia - parametri. Ai fini della configurabilità di una ristrutturazione edilizia, dovrà essere attribuito un rilievo preminente a quei dati di marca più propriamente urbanistica, come l'indice di volumetria, quello delle superfici coperte e quello della variazione della superficie utile. Consiglio di Stato Sezione V, sentenza 25 giugno 2002, n. 3438.

Errore di fatto - configurazione - art. 385, n. 4 del cod. proc. civile. Nel caso in esame non si configurano gli elementi che danno corpo all’errore di fatto, censurabile ai sensi dell’art. 385, n. 4 del cod. proc. civile. Tale errore si sostanzia nella autoevidente e non contestabile circostanza, rilevabile dagli atti di causa, che  il giudice ha  ritenuto come esistenti circostanze pacificamente non esistenti o viceversa. L’errore deve ricadere su fatti non controversi, pacifici tra le parti e deve presentare i tratti dell’evidenza, dell’obiettività e della immediata rilevabilità. Consiglio di Stato, Sez. V, Sent. del 02 aprile 2002, n. 1804.

Termine per impugnare - ricorso al criterio della piena conoscenza dell’atto - termini di decadenza - decorrenza del termine. A norma dell’art. 21 della legge n. 1034 del 1971, affinché possa farsi ricorso al criterio della piena conoscenza dell’atto, ai fini della decorrenza del termine per impugnare, occorre che si tratti di un atto soggetto a notificazione, e tale obbligo sussiste nei confronti dei soggetti che siano direttamente contemplati dall’atto (Cons. St., Sez. V, 27 gennaio 2000, n. 383). Nella specie i ricorrenti hanno fatto valere, ai fini della legittimazione all’impugnazione, la loro posizione qualificata rispetto agli altri cittadini del Comune, derivante dalla residenza nella zona in cui si sarebbe realizzata la discarica, ma nessuna diversa e maggiormente lesiva incidenza su beni di loro appartenenza. Tale posizione abilita bensì il soggetto all’impugnazione di un provvedimento che ritiene lesivo della posizione medesima ma non lo esonera dal rispetto dei termini di decadenza, che, per coloro che non sono nominativamente contemplati nell’atto decorrono dall’ultimo giorno della pubblicazione nell’albo pretorio (Sez. VI, 19 giugno 2000, n. 3463). Il diverso argomento, con il quale si è sostenuto che il termine sarebbe decorso non dalla deliberazione di approvazione del progetto (13 aprile 1990), ma da quella di voltura dell’autorizzazione dalla Maserati s.r.l. alla Neva Iseco ( 26 luglio 1990), è privo di consistenza. Come correttamente osservato dal TAR, il secondo provvedimento, disponendo la semplice voltura nella titolarità dell’autorizzazione, non recava alcun nuovo effetto lesivo rispetto a quello derivante dalla prima deliberazione in materia, ed era quindi inidoneo a far decorrere un nuovo termine di impugnazione. Consiglio di Stato, Sez. V, sent. del 25 marzo 2002, n. 1689.

Copia di atti pubblici - equivalenza dell’originale. E’ corretto il richiamo sia all’art. 2714 c.c., sia agli artt. 7 e 14 della L. 4 gennaio 1968, n. 15. La prima delle dette disposizioni infatti recita “le copie degli atti pubblici …..fanno fede come l’originale”, mentre la legge del 1968 precisa ancora che le “copie autentiche ottenute ai sensi dell’art. 14 possono essere validamente prodotte in luogo degli originali…” ed ancora che “l’autenticazione può essere fatta dal pubblico ufficiale dal quale è stato emesso o presso il quale è depositato l’originale…” affermando così la perfetta equivalenza dell’originale con la sua copia dichiarata conforme nelle forme previste dal codice di rito. Consiglio di Stato Sent. del 3/10/2001, n. 5202.

Reati di interesse privato - responsabilità solidale del segretario comunale - non rimborsabilità delle spese legali conclusisi con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato - limiti del rimborso agli amministratori - interessi confliggenti tra i medesimi e l’ente. Nel procedimento penale de quo era stata coinvolta la maggioranza del Consiglio Comunale di RX per fatti risalenti al 1975, contestandosi la commissione di reati di interesse privato (in seguito al 1990 assorbito nel reato di abuso d’ufficio) in occasione dell’approvazione del PRG di RX, avendo la maggioranza consiliare consentito l’inclusione in zona residenziale edificabile di un terreno appartenente ad alcuni consiglieri ed assessori, con consistente vantaggio patrimoniale dovuto all’incremento del valore delle aree, per le quali era stato altresì approvato un piano di attuazione ad iniziativa privata. Appare dunque evidente, dal semplice esame della sentenza di primo grado, che i consiglieri dell’epoca agirono in palese conflitto di interesse con l’ente locale, trascurando e pretermettendo i generali interessi dei quali erano istituzionali rappresentanti, venendo meno all’obbligo dell’esercizio delle funzioni con il dovere assoluto dell’imparzialità e del solo fine del bene della comunità locale, dando luogo ad una modificazione del PRG, in precedenza negato anche all’opera pia che gestiva un ricovero per anziani, al solo scopo di favorire gli interessi privati dei colleghi del Consiglio divenuti proprietari delle aree. Il giudizio di rimproverabilità della condotta nei confronti degli odierni convenuti si compendia quindi nell’aver dato deliberatamente luogo al rimborso mediante la delibera di giunta n° 163/96, nonostante l’evidente conclusione del processo penale lo impedisse, senza alcuna verifica dell’esistenza del conflitto di interesse, corredando la delibera stessa di giustificazioni contraddittorie. Tanto più censurabile, afferma il Procuratore Regionale, è la condotta del Sindaco Sig. R., per il suo trascorso coinvolgimento nel procedimento penale e per la sua posizione di principale beneficiario della decisione assumenda, avendo egli violato l’obbligo di astensione posto dagli articoli 290 del T.U. n°148/1915 e 279 del T.U. n°383/34. Ma altrettanto censurabile è la condotta del Segretario Comunale Dott.ssa T., la quale predispose la delibera n. 163/96 e manifestò parere favorevole di legittimità, ai sensi dell’art.53 della legge n. 142/90, agevolando così l’approvazione della medesima. Pertanto, conclude il Procuratore Regionale, appare evidente nei confronti dei convenuti la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo, inteso nel senso gius-contabile della cosciente violazione dei doveri connessi al munus publicum esercitato, con conseguente responsabilità solidale ex art. 1 comma 1 quinquies della legge n.°20/1994, salva in subordine la condanna dei medesimi per colpa grave, ciascuno per la parte che ha presa. Il CO.RE.CO., in sede di controllo di legittimità della deliberazione del Consiglio Comunale n°30/1995, "avesse evidenziato, come doveroso, la non rimborsabilità della spesa in presenza della formula del "non doversi procedere", invece implicitamente ma chiaramente avvallata come idonea allo scopo dal predetto organo" e, per altro verso, se il Segretario Comunale "avesse manifestato la propria contrarietà all’impegno" invece di esprimere il proprio parere favorevole di legittimità. Con sentenza n.214 del 20.01/4.2.94 (passata in giudicato) la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la sentenza, emessa dal Tribunale di Piacenza il 5/02/88, di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, nei confronti di R. Mauro, C. Vincenzo ed altri amministratori del Comune di RX, imputati del delitto p.e p. dell’art. 324 c.p. (ora 323 c.p.) per aver preso un interesse privato in una delibera di approvazione del P.R.G. di detto Comune. Con la deliberazione n. 163 del 6.5.1996, i convenuti, hanno disposto di rimborsare ai sigg. R. Mauro e C. Vincenzo – dietro richiesta dei medesimi – le spese legali da loro sostenute quali amministratori comunali per la loro difesa nel giudizio penale conclusosi con la predetta sentenza di non doversi procedere emessa dalla Corte d’Appello in data 20.01.1994. Nella motivazione della citata deliberazione n. 163, assunta con il parere favorevole di legittimità espresso dal Segretario Comunale, si dà atto espressamente di aver verificato che la giurisprudenza ha affermato il principio, ormai consolidato, della rimborsabilità nella specie delle spese legali soltanto se il procedimento penale si è risolto "con assoluzione con formula piena", precisandosi altresì che tale rimborso agli amministratori "è precluso nel caso di interessi confliggenti tra i medesimi e l’ente", potendo essere consentito solo "qualora, per effetto dell’assoluzione penale l’esistenza del conflitto d’interessi sia da escludere" (vengono anche citate a sostegno del richiamato principio giurisprudenziale alcune sentenze della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato). Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale - Emilia-Romagna Sentenza del 25 giugno 2001, n. 1213.

Inoppugnabilità dei verbali che non hanno acquistato valore di atti amministrativi. Non può ritenersi atto impugnabile quello riferito ad un verbale dei VV.UU. relativo alla effettuazione delle mere operazioni di rilevazione della mancata demolizione o rimozione delle opere di cui dovevasi attuare la demolizione giacchè le stesse operazioni tecniche non possono acquistare valore di atto amministrativo, suscettibile di impugnazione, sino a quando non sia emesso, da parte delle competenti autorità amministrative, nell’esercizio delle attribuzioni loro devolute dalla legge, un ulteriore atto che faccia proprie le rilevazioni dei Vigili Urbani. T.A.R. Lazio Sezione II Ter 02.05.2001 n. 3590   (vedi: sentenza per esteso)  

Responsabilità per l'igiene e la sicurezza dei luoghi di lavoro relativi agli uffici giudiziari si ripartisce tra il titolare del potere di controllo (capi degli uffici giudiziari) e il titolare del potere di spesa, spettante all'organo del comune (sindaco o assessore delegato o direttore dell'ufficio tecnico dotato di poteri decisori). In materia di responsabilità per l'igiene e la sicurezza dei luoghi di lavoro relativi agli uffici giudiziari, il dovere di sicurezza si ripartisce tra il titolare del potere di controllo, attribuito, dall'art. 2 d.lg. 19 marzo 1996 n. 242 e, sulla base di questo, dal decreto del Ministro della giustizia 18 novembre 1996 di attuazione, ai capi degli uffici giudiziari (che in tal modo hanno assunto la qualità di datori di lavoro ai sensi dell'art. 2 comma 1 lett. b) d.lg. 19 settembre 1994 n. 626), e il titolare del potere di spesa, spettante all'organo del comune (sindaco o assessore delegato al patrimonio immobiliare o direttore dell'ufficio tecnico dotato di poteri decisori) che eserciti in concreto la potestà di decisione e di spesa, atteso che, in forza dell'art. 1 l. 24 aprile 1941 n. 392, l'ente territoriale ha l'obbligo di provvedere a quanto necessita per "i locali ad uso degli uffici giudiziari" (Nella specie è stata annullata dalla Corte, con rinvio, la sentenza di condanna del dirigente dell'ufficio tecnico comunale, perché il giudice aveva omesso l'indagine e l'accertamento in ordine all'esistenza di una richiesta di intervento del Comune da parte del capo dell'ufficio giudiziario interessato e, ove vi fosse stato un positivo riscontro, anche in ordine all'individuazione dell'organo comunale titolare del potere di decisione e di spesa). Cassazione penale, sez. III, 2 marzo 2001, sentenza, n. 20904

Abuso d’ufficio - omissione dell’attività di vigilanza - colpevolezza del Sindaco. Il reato di abuso d'ufficio ipotizzato a carico del sindaco di un comune, per avere omesso consapevolmente di svolgere l'attività di vigilanza sul territorio e di adottare tutti i provvedimenti di sua competenza per reprimere un abuso edilizio, la violazione di una norma di legge, richiesta dalla norma incriminatrice, è ravvisabile nell'articolo 4 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 sul "controllo dell'attività urbanistico-edilizia", dettando precise disposizioni che fanno obbligo al sindaco, appunto, di esercitare la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale e di ordinare, tra l'altro, l'immediata sospensione dei lavori in caso di attività in contrasto con norme di legge e/o di regolamento e con le prescrizioni degli strumenti urbanistici. Cassazione Penale - Sezione VI - Sentenza del 15 febbraio 2001 n. 6192

Peculato d’uso - utilizzo del telefono di ufficio a fini privati - integrazione del delitto, quando l’uso non sia episodico o dipendente da esigenze del tutto contingenti. Il concorso apparente tra l'articolo 314 e l'articolo 323 del codice penale va, risolto nel senso dell'applicazione della prima norma, anche se i due reati sono attualmente puniti con pene di identica gravità, trattandosi di norma speciale, in quanto distinta dall'elemento dell'appropriazione, rispetto all'articolo 323 del codice penale che prevede genericamente il conseguimento di un ingiusto vantaggio patrimoniale come conseguenza di una condotta posta in essere dal pubblico ufficiale attraverso la violazione di norme di legge o di regolamento. Non esisteva alcun obbligo di adottare una decisione, per così dire, simmetrica a quella con la quale il giudice di primo grado aveva a suo tempo disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero nella situazione opposta (contestazione del reato di cui all'articolo 314, capoverso, del codice penale e ritenuta conformità del fatto alla diversa ipotesi di cui all'articolo 323 del codice penale); ed anzi, una decisione del genere sarebbe stata illegittima, avendo i giudici di appello ritenuto che non di diversità del fatto si trattasse, ma di semplice diversità della sua qualificazione giuridica. Ed invero, era stato contestato all'imputato di aver abusato del proprio ufficio utilizzando a fini personali l'apparecchio telefonico che aveva in dotazione; ed è esattamente questa la condotta ritenuta in sentenza, anche se ricondotta alla previsione dell'articolo 314, capoverso, del codice penale. Quanto all'oggettiva configurabilità di quest'ultima ipotesi delittuosa, è ben vero che questa Corte (Cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 ottobre 2000, ricorrente Di Maggio) la ha esclusa nel caso di "uso del telefono dell'ufficio fatto in via episodica per contingenti esigenze personali e con incidenza economica minima per l'ente intestatario dell'utenza", ravvisando in tale condotta una deviazione irrilevante dalla destinazione tipica del bene, come tale penalmente indifferente. Non può infine essere posto ragionevolmente in dubbio, sulla base delle considerazioni contenute nel ricorso, l'elemento soggettivo del reato. L'intenzione della restituzione, che il ricorrente invoca, non esclude di certo il dolo, ma è anzi l'elemento che distingue l'ipotesi delittuosa prevista dal secondo comma dell'art. 314 c.p. dall'ipotesi più grave prevista dal primo comma. Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 7 novembre 2000-18 gennaio 2001 n. 353.

Concorso dei reati - falsità in atto pubblico - abuso di ufficio. Il reato di falsità in atto pubblico, commesso da un pubblico ufficiale, e quello di abuso di ufficio sono volti a tutelare beni giuridici differenti, pertanto, possono concorrere tra loro. Si ha concorso di reati allorché, in relazione ad una medesima fattispecie, trovano applicazione congiunta due diverse norme penali. Infatti, il reato di falsità in atto pubblico, commesso da un pubblico ufficiale, e quello di abuso di ufficio sono volti a tutelare beni giuridici differenti, pertanto, possono concorrere tra loro. Cassazione penale sez. V, 16 marzo 2000, n. 3349.

Sono penalmente responsabili il sindaco e il capo dell’ufficio tecnico per inosservanza delle norme relative alla prevenzione antinfortunistica e di sicurezza. E' penalmente responsabile un sindaco che, pur avvertito, non si curi di far rimuovere possibili violazioni a norme relative alla prevenzione antinfortunistica. E’ ininfluente se il provvedere richieda una maggiore spesa non preventivata, in quanto il sindaco ha sempre il potere di chiedere le ''necessarie variazioni in bilancio'', o di attingere ''al fondo di riserva''. Le stesse responsabilita' riguardano anche il capo dell'Ufficio Tecnico del Comune, se, avvertito della violazione, ''non si avvalga dell'opera dei dipendenti comunali per effettuare le opere richieste''. Nella specie il sindaco e il capo dell’ufficio tecnico sono stati condannati dal Pretore di Lucera per inosservanza delle norme di sicurezza durante l'esecuzione di lavori ad una scuola elementare. Corte di Cassazione Sentenza del 20 gennaio 2001 sentenza, n. 257

Incaricati di pubblico servizio - contraffazione di timbratura del cartellino - applicabilità del reato di truffa e non del reato di falso in atto pubblico. Sono incaricati di pubblico servizio e rivestono questa qualifica anche dopo la privatizzazione delle municipalizzate i dipendenti delle aziende municipali che si occupano della raccolta dei rifiuti urbani. Nei loro confronti, peraltro, non è ipotizzabile l'accusa di falsità in atto pubblico (nella fattispecie, i netturbini contraffacevano i cartellini di timbratura dell'orario di lavoro), ma solo quella di truffa, poiché l'operatore ecologico in senso stretto "svolge in sostanza operazioni manuali meramente materiali" e non compie atti che rivestono la forma "documentale", elemento essenziale per il delitto di falsità in atto pubblico. Cass., Sez. III Pen., 15 gennaio 2001, n. 3901.

Responsabilità del dirigente per ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche - la nozione di datore di lavoro pubblico nel dirigente - la posizione di garanzia assunta dal sindaco e dagli assessori in materia di prevenzione. In tema di norme per la prevenzione dagli infortuni, non si può ascrivere al dirigente ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche atteso che, sebbene l'art. 2, lett. b), seconda parte, D. Lgs. n. 626 del 1994, individua la nozione di datore di lavoro pubblico nel dirigente al quale spettano i poteri di gestione, l'art. 4, comma 12, D. Lgs citato ribadisce il principio fondamentale in materia di delega di funzioni secondo cui, attesa la posizione di garanzia assunta dal sindaco e dagli assessori in materia di prevenzione, la delega in favore del dirigente assume valore solo ove gli organi elettivi e politici siano incolpevolmente estranei alle inadempienze del delegato e non siano stati informati, assumendo un atteggiamento di inerzia e di colpevole tolleranza. (Nella specie la Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito i quali avevano affermato, oltre quella del dirigente che non si era avvalso dei dipendenti comunali per effettuare le opere minimali necessarie, anche la responsabilità penale del sindaco il quale, messo a conoscenza delle violazioni esistenti e delle misure da adottare, non aveva provveduto a richiedere le necessarie variazioni in bilancio per una partita relativa a poche opere provvisionali e neppure azionato i poteri di impegnativa di spese del cd. fondo di riserva). Cassazione penale, sez. III, 24 novembre 2000, sentenza n. 257

Abuso d’ufficio, art. 323 c.p. – configurabilità del reato nel caso di concessione edilizia in assenza della prescritta autorizzazione ambientale. Integra il reato di abuso d'ufficio il rilascio da parte degli amministratori comunali di una concessione edilizia in assenza della prescritta autorizzazione ambientale: l'autorità amministrativa, infatti, non è svincolata, nel concedere la concessione edilizia, dalle disposizioni relative alle limitazioni poste dalle norme in tema in tema di tutela dell'ambiente, in quanto queste ultime costituiscono uno dei presupposti necessari per la legittimazione della concessione stessa; conseguendone che una tale condotta si configura come in "violazione di legge" (sub specie, della violazione delle leggi che presiedono ai vincoli ambientali),  rilevante ai fini e per gli effetti dell'articolo 323 del codice penale. Cassazione Penale - Sezione VI - Sentenza del 4 ottobre 2000 n. 10441

Abuso d’ufficio, art. 323 c.p. – configurabilità del reato nel caso di concessione edilizia senza il rispetto del piano regolatore generale. Deve ritenersi che la concessione edilizia senza rispetto del prg integra una violazione di legge rilevante al fine della configurabilità del reato di cui all’articolo 323 c.p..Nella specie, concessione edilizia in zona inedificabile, ha ritenuto la Corte di Cassazione che il piano regolatore generale contiene prescrizioni d’immediata applicazione. Ne consegue – sotto il profilo del soddisfacimento del principio della determinatezza della fattispecie incriminatrice – la sussistenza del dovere da parte della competente autorità amministrativa di provvedere ai sensi dell’articolo 4 L. n.10/77 ( caratteristiche della concessione edilizia) e dell’art. 31 L. n. 1150/42, dati normativi che costituiscono il principio discriminante della condotta lecita da quella illecita. Cassazione penale sez. VI,Sentenza n. 6247/2000

Urbanistica e Edilizia - Domanda di condono - Effetti ai fini pubblici - Configurabilità del reato ex art. 483 cod. pen. - Reati contro la fede pubblica - Deliti - Falsità in atti pubblici - Condizioni per la configurabilità Domanda di Condono edilizio - Prova dei fatti attestati – Conseguenze - L. 47/1985 artt. 31 e 38 - L. 724/1994. II delitto di falsità ideologica commesso dal privato in atto pubblico sussiste allorchè l'atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati. Nella domanda di condono edilizio la parte richiedente, dichiara che sussistono i requisiti previsti dalla legge per l'applicazione del beneficio richiesto. In particolare che la costruzione è stata conclusa prima del 31.12.1993 e che la misura globale delle opere è conforme alle previsioni di legge. Sulla base di queste dichiarazioni, la Pubblica Amministrazione ammette il richiedente alla procedura, salvi gli opportuni accertamenti. Pertanto la domanda di condono è chiaramente destinata a provare la verità dei fatti attestati, producendo immediatamente effetti rilevanti sul piano giuridico. Ne consegue che in questo caso, sussistendo l'oggetto della tute-la penale, la fattispecie prevista dall'articolo 483 cod. pen. trova piena applicazione. Pres. Consoli G - Est. Providenti F - Imp. Bazzichi - PM. (Conf.) Galati G. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. V, 23 marzo 2000 (UD.22/02/2000) RV. 215725, Sentenza n. 03762

Configurabilità del reato di abuso d’ufficio nel caso di rilascio di concessione edilizia in difformità al prg. Ai fini della configurabilita' del reato di abuso d'ufficio nel caso di rilascio di concessione edilizia in difformità delle previsioni del piano regolatore generale del comune, detto rilascio e' qualificabile non come violazione di regolamento (non rientrando il piano regolatore nella categoria dei regolamenti), ma come violazione di legge, atteso che è la legge a disporre che la concessione edilizia deve conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici. Il pubblico amministratore di estrazione politica accusato di abuso d'ufficio non può invocare a propria scusante la mancata conoscenza di norme disciplinanti l'attività cui egli è preposto, assumendo di aver fatto affidamento, nell'adottare il provvedimento risultato in contrasto con dette norme, su parere favorevole di organi tecnici (principio affermato in relazione al rilascio di concessione edilizia illegittima, sulla base di parere favorevole rilasciato dalla commissione edilizia comunale). Cassazione penale sez. VI, 11 maggio 1999, n. 8194

Divieto di delega delle proprie funzioni pubbliche da parte del sindaco a tecnici. E’ fatto divieto al  sindaco di delegare ai tecnici le decisioni su questioni che  riguardano con immediatezza la sua funzione pubblica senza assunzione  di responsabilità diretta. Cassazione penale sez. VI, 11 maggio 1999, n. 8194

Concessione edilizia inefficace - effetti penali. Una concessione edilizia inefficace (perché carente dell'autorizzazione prevista dalla l. n. 1089 del 1939 oggi D. Lgs. 1999 n. 490), ancorché rilasciata "contra legem", non configura il reato il reato di abuso d'ufficio qualora, proprio a causa della sua inefficacia, non possa avere alcun effetto utile. Cassazione penale, sez. VI, 30 aprile 1999, n. 12928

La configurazione del reato di abuso d'ufficio - elementi della condotta oggettiva e soggettiva dell'agente - la lesione effettiva e concreta del bene giuridico protetto - reato di danno e non di pericolo. Per la configurazione del reato di abuso d'ufficio è essenziale che l'agente ponga in essere una condotta oggettiva e soggettiva consistente nella violazione di norme di legge o di regolamenti, nell'inosservanza del dovere di astenersi o, comunque, nelle altre ipotesi previste dall'art. 323. Occorre, inoltre, che dalla condotta derivi una lesione effettiva e concreta del bene giuridico protetto (vale a dire lo svolgimento corretto ed imparziale dell'azione amministrativa, come configurata dall'art. 97 cost.), non un semplice pericolo di lesione; il reato di abuso d'ufficio è, infatti, un reato di danno e non di pericolo. Cassazione penale, sez. VI, 30 aprile 1999, n. 12928

Abuso d’ufficio - violazione prg - principio di legalità - violazione piani comprensoriali. Incorre nel reato di abuso d'ufficio l'amministratore che rilascia una concessione edilizia in violazione delle previsioni del piano regolatore generale del Comune. "E' configurabile il reato di abuso d'ufficio, in caso di rilascio di concessione edilizia in violazione del piano comprensoriale, il cui rispetto e' imposto dal combinato disposto degli art. 1 e 4 l. 28 gennaio 1977 n. 10 ed art. 31 l. 17 agosto 1942 n. 1150. E' compatibile con il principio di legalità la circostanza per cui un provvedimento amministrativo possa qualificare la condotta dell'agente, al fine di integrare quei presupposti per la sussistenza del fatto di reato, che sfuggano ad una preventiva individuazione legislativa. Infatti, i provvedimenti amministrativi - di cui la legge stabilisce presupposti, contenuti e limiti - si atteggiano come atti di normazione secondaria che, pur non potendo determinare la condotta delittuosa, concorrono ad individuare la ricorrenza dei presupposti di fatto richiesti per la ricorrenza della condotta penalmente sanzionata. Cassazione penale sez. VI, 16 ottobre 1998, n. 3090". “E' configurabile, anche nella nuova formulazione dell'art. 323 c.p. introdotta dall'art. 1 l. 16 luglio 1997 n. 234, il reato di abuso di ufficio nel caso di rilascio, da parte del sindaco, di una concessione edilizia in difformità al piano urbanistico regionale alla cui osservanza i comuni siano tenuti, dando ciò luogo ad una tipica violazione di legge dalla quale discende, con nesso di causalità, l'ingiusto vantaggio patrimoniale costituito dall'accresciuta potenzialità edificatoria del suolo sul quale deve sorgere l'immobile oggetto di detta concessione. Cassazione penale sez. VI, 9 luglio 1998, n. 12320”. Cassazione penale sez. VI, 26 aprile 1999, n. 8191

Abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge - elemento materiale Codice penale art. 323.    Integra il reato di abuso d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p. la condotta del pubblico amministratore che, pur in assenza della conformità alla disciplina urbanistica di un locale, rilasci per esso una licenza di commercio. Ed invero, nel procedimento amministrativo per il rilascio della licenza di commercio l'indagine su detta conformità si pone come momento istruttorio ineludibile, in quanto il collegamento fra distinti settori normativi (nella specie, quello annonario e urbanistico) e' imposto non solo dai principi generali dell'ordinamento, ma anche da precise norme di legge, sicchè il mancato coordinamento dei relativi procedimenti concreta il vizio di violazione di legge, la cui ricorrenza ha l'effetto di procurare un ingiusto vantaggio al destinatario del provvedimento amministrativo. Cassazione penale sez. VI, 12 gennaio 1999, n. 144

Abuso d’ufficio commesso dall’assessore delegato dal sindaco - verde agricolo. Si  deve  ritenere responsabile  del  reato di cui all'art. 323 c.p. l'assessore  comunale delegato  dal  sindaco che, nella sua qualità,  abbia  abusato del  suo ufficio, rilasciando una concessione edilizia  relativa  all'edificazione  di un  immobile  su  un suolo destinato a  verde  agricolo   e  per   una  volumetria  superiore  all'indice  di  edificabilità   consentito dal   piano  comprensoriale,  a tal  fine  ritenendo  asserviti  al vincolo altri fondi non contigui, situati in  zone opposte  del  territorio  comunale e distanti diversi chilometri  rispetto all'erigendo fabbricato.   Cassazione penale sez. VI, 16 ottobre 1998, n. 1354. Si  deve  ritenere responsabile  del  reato di cui all'art. 323 c.p. l'assessore  comunale delegato  dal  sindaco che, nella sua qualità,  abbia  abusato del  suo ufficio, rilasciando una concessione edilizia  relativa  all'edificazione  di un  immobile  su  un suolo destinato a  verde  agricolo   e  per   una  volumetria  superiore  all'indice  di  edificabilità   consentito dal   piano  comprensoriale,  a tal  fine  ritenendo  asserviti  al vincolo altri fondi non contigui, situati in  zone opposte  del  territorio  comunale e distanti diversi chilometri  rispetto all'erigendo fabbricato.  Cassazione penale sez. VI, 16 ottobre 1998, n. 1354

Interesse personale di uno dei componenti del consiglio comunale - illegittimità della delibera. E' illegittima per contrasto con il principio costituzionale d'imparzialità la delibera consiliare di adozione di variante al p.r.g. quando e' configurabile un interesse personale e diretto in capo ad uno dei componenti dell'organo collegiale, al tempo stesso assessore comunale e amministratore delegato della società avvantaggiata dalla nuova previsione di destinazione urbanistica. Consiglio Stato sez. IV, 7 ottobre 1998, n. 1291

 

Ristrutturazione - restauro - ricostruzione - manutenzione - espropriazione - indennizzo - responsabilità...     ^

Occupazione d'urgenza relativa ad un'opera pubblica di competenza comunale - i provvedimenti espropriativi e il termine trimestrale - decreto di occupazione. La competenza a provvedere all'occupazione d'urgenza, spettava al Sindaco, e non alla Giunta municipale, come già ripetutamente avvertito dalla Sezione (cfr., fra le tante, 28 ottobre 1993, n. 948; 23 aprile 1992, n. 445; 26 gennaio 1987, n. 50), le cui acquisizioni devono essere ribadite in questa sede. Ed invero, all'occupazione d'urgenza per cui è causa, connessa al territorio della Regione Campania e relativa ad un'opera pubblica di competenza comunale, era applicabile la L. reg. della Campania 31 ottobre 1978, n. 51, il cui art. 37 (commi 1 e 2) rinvia, per la competenza in materia di provvedimenti di occupazione d'urgenza, alla legge regionale 19 aprile 1977, n. 23. L'art. 2 di quest'ultima legge, recante "provvedimenti espropriativi di cui al titolo II della legge 22 ottobre 1971, n. 865 - designazione dell'organo regionale cui compete l'esercizio delle funzioni di carattere amministrativo", dispone che i provvedimenti relativi ai procedimenti amministrativi previsti dalla legge medesima sono adottati dai sindaci dei Comuni. Ed è allora dalla data di adozione di tale ultimo provvedimento che va computato il termine trimestrale entro cui, a norma dell'art. 20, primo comma, seconda parte, della legge 22 ottobre 1971, n.. 865, deve seguire l'occupazione delle aree da espropriare, pena la inefficacia del decreto di occupazione medesimo, e non già dalla data del precedente atto giuntale. Sulla anteriorità della L. reg. n. 23/77 rispetto al D.P.R. n. 616/77, basti ricordare che - a tacere della circostanza che è la successiva L. reg. n. 51/78 a rinviare, per la competenza in materia di procedimenti di occupazione d'urgenza, alla L. reg. n. 23/77 - l'art. 106 di tale D.P.R. (richiamato dall'art. 3 L. n. 1/78) si limita ad attribuire ai "Comuni" la detta competenza, senza specificare l'organo a ciò deputato: il che lascia ampio spazio al sistema normativo regionale in sede di individuazione dell'organo medesimo. Ed invero, il giudice delle leggi ha chiarito che l'art. 128 Cost. non vieta alle Regioni di precisare quali, tra gli organi comunali previsti dall'ordinamento statale, siano competenti a provvedere in ordine a materie delegate ai Comuni (cfr. Corte cost. 20.10.83, n. 319). Consiglio di Stato Sezione IV del 23 dicembre 2002 sentenza n. 7279

I compiti del direttore dei lavori e connesse responsabilità penali - conformità della edificazione alla concessione ed alle modalità esecutive - effettivo contributo causale - mera inattività nel controllo - condotta di partecipazione al reato edilizio altrui. Il direttore dei lavori è un professionista abilitato, incaricato dall’appaltatore o dal committente, che sovrintende alle opere, assumendo la responsabilità tecnica della loro esecuzione. A norma dell’art. 6 comma 1 della L. 47/85 il direttore dei lavori è tra i soggetti tenuti all’osservanza della conformità della edificazione alla concessione ed alle modalità esecutive stabilite nella medesima; pertanto il compito di controllo di tale soggetto ( la cui violazione è sanzionata dall’art. 20 L.cit) è circoscritto all’accertamento di un valido provvedimento concessorio ed al suo rispetto. (In specie è stata ritenuta condivisibile la tesi dei Giudici che hanno rilevato come l’imputato sia venuto meno all’obbligo, che aveva assunto con l’incarico di direttore dei lavori, di verificare l’esatta esecuzione degli stessi; tale incuria ha permesso che l’edificazione fosse non conforme al contenuto del provvedimento autorizzatorio (difformità questa che non è penalmente rilevante sanzionata dall’art. 20 L, 47/85)). Tuttavia, per giungere alla conclusione che l’imputato sia responsabile del reato di edificazione senza concessione occorre dimostrare un suo effettivo contributo causale, di natura morale, alla commissione dell’illecito materialmente posto in essere da altra persona. La mera inattività nel controllo non è sufficiente dal momento che all’imputato incombeva solo l’obbligo di verificare la conformità dell’opera all’autorizzazione ed il manufatto abusivo è autonomo e non connesso con quello per il quale l’imputato aveva assunto la direzione dei lavori. Dal testo della gravata sentenza, non emerge alcun elemento dal quale possa ragionevolmente ritenersi , in capo al ricorrente, una condotta di partecipazione al reato edilizio altrui al quale l’imputato deve ritenersi estraneo; tale conclusione si riverbera sul reato ambientale poiché la necessaria autorizzazione era carente solo per le opere soggette a regime concessorio. Corte di Cassazione - Sezione III Penale - del 17/12/2002 Sent. n. 42215

Direttore dei lavori - condotta - impossibilità di adempiere il suo mandato - responsabilità penali - insussistenza - autorizzazione edilizia - zona vincolata. Non è ravvisabile nella condotta del direttore dei lavori alcuna negligenza o omessa vigilanza dal momento che il committente - appaltatore delle opere ha eseguito i lavori personalmente in breve lasso di tempo privandolo della possibilità di adempiere il suo mandato. Trattandosi di interventi soggetti ad autorizzazione, egli non era gravato dell’obbligo di cui all’art. 6 della L. 47/85 in virtù del quale il direttore è responsabile unicamente della conformità dell’opera alla concessione. Pertanto, non è configurabile la violazione dell’art. 1 sexies della L. 431/85 perché l’autorizzazione edilizia era preceduta da quella ambientale e non vi è stato alcun impatto negativo sul territorio. (Nella fattispecie era stato realizzato in zona vincolata e privo d’autorizzazione ambientale, una recinzione in difformità dall’autorizzazione nonché due tettoie senza concessione). Corte di Cassazione - Sezione III Penale - del 17/12/2002 Sentenza, n. 42215

Omissione di lavori in edifici o altre costruzioni che minacciano rovina - reato proprio - configurabilità a carico del locatario di appartamento in costruzione che minaccia rovina - reati contro l'incolumità pubblica - contravvenzioni. La fattispecie prevista dall'art. 677 cod. pen. (omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina) configura un reato proprio che può essere commesso soltanto dal proprietario dell'edificio o dal non proprietario che, per legge o per convenzione, sia obbligato alla conservazione o alla vigilanza del medesimo. Ne consegue che il conduttore dell'appartamento sito nell'edificio non è destinatario, in quanto tale, del precetto di cui al citato articolo, atteso che, a norma dell'art. 1576 cod. civ., tutte le riparazioni necessarie per il mantenimento della cosa locata sono a carico del locatore e non già del conduttore e che costui ha solo l'onere, secondo quanto dispone l'art. 1583 stesso codice, di non opporsi alla loro esecuzione. Corte Cassazione, Sez. I, del 12.12.2002 Sentenza n. 41709

La rilevanza della distinzione tra "espropriazione sostanziale" (o "occupazione applicativa") ed "occupazione usurpativa" - il diritto al risarcimento integrale del danno ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile - la costruzione giurisprudenziale della cosiddetta "espropriazione sostanziale" - i presupposti della cosiddetta "occupazione usurpativa". È affermazione costante, nell'ambito della costruzione giurisprudenziale della cosiddetta "espropriazione sostanziale", che, allorquando la realizzazione dell'opera pubblica (con relativa trasformazione irreversibile del fondo) si verifica in pendenza di un'occupazione temporanea legittima solo alla scadenza di questa si verifica l'effetto acquisitivo della P. A. ed il correlativo sorgere del diritto risarcimento del danno del privato ( e ciò a partire dalle prime elaborazioni giurisprudenziali dell’istituto: Cass., Sez. Un., 1464/1983; Cass. Sez. Un., 4 marzo 1997, n. 1907). In realtà, poi, nella presente fattispecie potrebbero addirittura ricorrere i presupposti della cosiddetta "occupazione usurpativa" in quanto con la sentenza ha anche annullato la proroga dei termini per il completamento delle procedure espropriative e, quindi, nel caso in cui la strada fosse stata realizzata successivamente alla scadenza dell’originario provvedimento non sarebbe più operante la dichiarazione di pubblica utilità. La rilevanza della distinzione tra "espropriazione sostanziale" (o "occupazione applicativa") ed "occupazione usurpativa", che si ha quando viene meno (prima del compimento dell’opera)o manca ab origine anche la dichiarazione di pubblica utilità, potrebbe avere un effetto pratico in quanto per quest'ultima non potrebbe comunque trovare applicazione la riduzione del risarcimento del danno, operata dall'articolo 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, che lo quantifica nella stessa misura dell'indennità di esproprio aumentata del solo 10%. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ritenuto compatibile con la Costituzione la riduzione del risarcimento danni di cui alla sopra citata normativa proprio sul presupposto della sua temporaneità, ovvero per “l'applicabilità alle occupazioni illegittime di suolo intervenute anteriormente al 30 settembre nella 1996” (Corte Costituzionale 30 aprile 1999, n. 148; Corte Costituzionale, 4 febbraio 2000, n. 24). In definitiva, qualunque sia il momento di realizzazione della strada, la perdita della proprietà dell'area da parte del privato, per effetto della irreversibile trasformazione del fondo, sussistendo l’illegittimità della procedura espropriativa come sopra evidenziato, ne deriva il diritto al risarcimento integrale del danno ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile. Tribunale Amministrativo Regionale, sez. staccata di Parma, del 4 dicembre 2002 sent. n. 877 (vedi: sentenza per esteso)

La materia dell’espropriazione tra giurisdizione ordinaria e amministrativa - domanda risarcitoria. E’ da rilevare che all’indomani dell’emanazione dell’art. 34 del D. Lgs. n. 80/1998, la materia dell’espropriazione si è trovata “in bilico” tra giurisdizione ordinaria e amministrativa; prova ne sia che tanto da parte del giudice ordinario, quanto da parte del giudice amministrativo sono state rese pronunce ugualmente affermative e negative della rispettiva giurisdizione (si vedano, a favore della giurisdizione del giudice amministrativo: Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, sez. I, 4 luglio 2001, n. 536, Tribunale di Milano, Sez. I, 24 giugno 1999, Giudice unico del Tribunale di Palermo Sez. 1, 20 maggio 1999, T.A.R. Campania, 22 dicembre 1999; ed a favore della giurisdizione del giudice ordinario: Tribunale di Napoli, 23.11.1999, Tribunale di Taranto, Sez. I, 3 gennaio 2000, T.A.R. Sicilia, 28 aprile 2000, T.A.R. Reggio Calabria, 23 giugno 2000, n. 1025); Tuttavia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (ordinanza n. 43 del 2000) sono giunte a sollevare una questione di costituzionalità - per eccesso di delega - del citato art. 34, nel presupposto che esso trasferisca al giudice amministrativo “per l’indicato settore delle espropriazioni, le controversie in cui si faccia valere il diritto alla riacquisizione del bene occupato senza titolo (per originaria carenza o successiva inefficacia del titolo stesso), il diritto al risarcimento del danno per occupazione illegittima, od il diritto al risarcimento del danno prodotto dal tradursi dell’occupazione medesima nella cosiddetta accessione invertita od espropriazione sostanziale”. Il sopravvenire della legge 205 del 2000 sembra, tuttavia, aver rappresentato un elemento di chiarificazione tale da indurre il Consiglio di Stato a prendere decisamente partito nel senso della giurisdizione, in materia, del G.A.. La Sezione V ha affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa (in applicazione dei principi ermeneutici concernenti la giurisdizione sopravvenuta ex lege n. 205), in una controversia in cui la sospensione degli effetti della dichiarazione di p.u. rendeva priva di idoneo titolo giustificativo, sin dall’origine, l’utilizzazione dell’area privata da parte della P.A. Ma soprattutto di recente e con l’autorevolezza dell’Adunanza Generale (parere 29 marzo 2001, prot. n. 124/2000), il Consiglio di Stato ha ulteriormente e decisamente affermato la giurisdizione del G.A. nella materia de qua: presa di posizione, questa, che risulta ancor più significativa, siccome manifestata all’atto di licenziare lo schema di nuovo T.U. in materia di espropriazione per pubblica utilità, la cui redazione era stata demandata dal Governo al medesimo Consiglio di Stato, in applicazione dell’articolo 7, comma 5, della legge 8 marzo 1999, n. 50. Dopo aver ricordato la (discussa, in dottrina e nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo) elaborazione, da parte della Corte di Cassazione, dell’istituto dell‘”occupazione appropriativi” (o “espropriazione sostanziale”) e di quello, più recente, della “occupazione usurpativa”, l’A.G. ha testualmente affermato che: “l’articolo 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (nel testo sostituito dalla legge n. 205 del 2000) ha disposto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che nella materia espropriativa (rientrante, ai fini della giurisdizione, nell’ambito della materia dell’urbanistica, come definita dal richiamato articolo 34) conosce di tutti gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti (anche illeciti) di ogni pubblica amministrazione o soggetto ad essa equiparato”. In materia di espropriazione, in presenza di un illecito della pubblica amministrazione (o di un soggetto per legge equiparato), sussiste, quindi, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo” (Cons. Giust. Amm. Reg. Sic. 14 giugno 2001, n. 296). In definitiva è da ritenere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (cfr altresì Cons. Giust. Amm. Reg. Sic. 14 giugno 2001, n. 296) oltre che per le ragioni sopra esposte anche per la modifica della giurisdizione, operata dalla legge n. 205 del 200 diretta ad individuare la giurisdizione esclusiva del G.A. (cfr il citato parere 29 marzo 2001 dell’A.G. del Consiglio di Stato) con il criterio dei blocchi di materie. Alla stregua delle considerazioni che precedono, deve essere, conclusivamente, affermata la giurisdizione di questo Giudice in ordine alla domanda risarcitoria avanzata dai ricorrenti. Tribunale Amministrativo Regionale, sez. staccata di Parma, del 4 dicembre 2002 sent. n. 877 (vedi: sentenza per esteso)

Determinazione della giurisdizione del giudice amministrativo per effetto dell’occupazione acquisitiva o meglio “usurpativa”. Ai fini della giurisdizione del giudice amministrativo, il momento consumativo dell’illecito che ha determinato la perdita di proprietà dell’area per effetto dell’occupazione acquisitiva o meglio “usurpativa” va determinato nella data di scadenza del decreto di occupazione legittimo (essendo stato annullata in questa sede la proroga) ovvero il 27/11/1998 e, quindi, dopo l’attribuzione della giurisdizione al Giudice amministrativo, per effetto del Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 80, che ha fissato la data del 30 giugno 1998 quella che determina l’operatività del passaggio di giurisidizione. Tribunale Amministrativo Regionale, sez. staccata di Parma, del 4 dicembre 2002 sent. n. 877 (vedi: sentenza per esteso)

Procedimento di approvazione delle dichiarazioni di pubblica utilità - l'occupazione d'urgenza preordinata all'espropriazione - l'annullamento della proroga delle dichiarazioni di pubblica utilità determina il travolgimento dell'occupazione d'urgenza per illegittimità derivata. L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Ad. Plen. 15 settembre 1999, n. 14) ha chiarito che le disposizioni sull'avviso di avvio del procedimento hanno effetto anche sul procedimento di approvazione delle dichiarazioni di pubblica utilità, quanto meno nelle forme di cui all'articolo 10 della legge n. 165 del 1971 (deposito e notificazione del progetto, osservazione degli interessati, pronuncia sulle stesse). L'occupazione d'urgenza preordinata all'espropriazione ha come suo presupposto di legittimità non solo una dichiarazione d'urgenza ed indifferibilità dell'opera, ma altresì una dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace. Conseguentemente l'annullamento della proroga delle dichiarazioni di pubblica utilità determina il travolgimento dell'occupazione d'urgenza per illegittimità derivata (Ad. Plen. 24 gennaio 2000, n. 2). Inoltre, la proroga dell'occupazione d'urgenza è viziata anche per illegittimità proprie essendo stata disposta, senza alcuna motivazione, e dopo la scadenza del pregresso decreto prefettizio di occupazione d'urgenza nonché oltre il termine di cui all'articolo 20 della legge n. 865 del 1971. Tribunale Amministrativo Regionale, sez. staccata di Parma, del 4 dicembre 2002 sent. n. 877 (vedi: sentenza per esteso)

E’ legittimo per un direttore dei lavori ottenere l’onorario anche se tra il professionista e l’ente appaltante non era stato mai concluso un formale contratto d’incarico - la dimostrazione di una volontà reale di accordo di affidamento d’incarico. E’ legittimo per un direttore dei lavori ottenere l’onorario anche se tra il professionista e l’ente appaltante non era stato mai concluso un formale contratto d’incarico. E’ sufficiente per desumere l’esistenza di un accordo tra le parti l’esistenza di un fitto scambio di lettere tra il soggetto e l’ente appaltante. La Cassazione, ribaltando una giurisprudenza abbastanza consolidata, rimanda il tutto al riesame del Tribunale, evidenziando comunque che non è indispensabile l’esistenza di un contratto formale e sottoscritto per avere il diritto al compenso professionale, ma è sufficiente la dimostrazione di una volontà reale di accordo di affidamento d’incarico. Corte di Cassazione -Civile - 2002 Sentenza n. 4290

Provvedimento di occupazione d'urgenza, emanato, in carenza della presupposta dichiarazione di pubblica utilità dell'opera da realizzare - illegittimità. Il provvedimento di occupazione d'urgenza, emanato, in carenza della presupposta dichiarazione di pubblica utilità dell'opera da realizzare, risulti, in quanto provvedimento consequenziale, illegittimo (Cons. Stato, IV Sez., n. 4751/2001). Consiglio di Stato Sezione IV, 11 novembre 2002 n. 6193

I presupposti per la demolizione di edifici a seguito di eventi sismici - la realizzazione degli alloggi e delle relative opere di urbanizzazione - complessiva ricostruzione e interpretazione del quadro normativo - la espropriazione dell’area - opere di arredo urbano e non di urbanizzazione primaria o secondaria. L'art. 84 ter legge n. 219 del 1981 non stabilisce i presupposti per l'acquisizione delle aree e degli edifici, mediante mero rinvio all'art. 80, ma si limita ad ampliare i presupposti per la demolizione di edifici, che siano acquisiti alle condizioni fissate dal precedente art. 80, in particolare, consentendo la demolizione, oltre che per la realizzazione degli alloggi e delle relative opere di urbanizzazione, anche per più generali ragioni urbanistiche relative alla realizzazione del programma costruttivo. Resta fermo, pertanto, che per acquisire aree su cui insistono edifici, occorre che questi ultimi siano in sè, e già prima dell'intervento espropriativo, da destinare alla demolizione. L'art. 6, comma 7, legge n. 730 del 1986, a sua volta, reca una disposizione interpretativa che va letta avendo riguardo al dettato dell'art. 84 ter legge n. 219 del 1981. Quest'ultimo, infatti, stabilisce che gli edifici acquisiti possano essere demoliti per ragioni urbanistiche motivate. Invece, l'art. 6, comma 7, legge n. 730 del 1986 stabilisce che gli edifici acquisiti possono comunque essere demoliti per ragioni urbanistiche. L'art. 6, comma 7, pertanto, riduce, rispetto all'art. 84 ter l'onere di motivazione in ordine alle ragioni urbanistiche della demolizione, ma non modifica i presupposti per l'acquisizione di edifici. Siffatta complessiva ricostruzione e interpretazione del quadro normativo è suffragata, ad avviso del Collegio, pure da un altro ordine di considerazioni. Se fossero state acquisibili anche aree comprensive di edifici non destinati alla demolizione già ex ante, ma da demolire per la realizzazione del programma, la formulazione delle norme in questione avrebbe potuto essere ben più semplice; in particolare, l'art. 80 legge n. 219 del 1981 poteva fare riferimento alle aree disponibili ed immediatamente utilizzabili, anche se comprendenti edifici, senza specificare che deve trattarsi di edifici da demolire. A loro volta, gli artt. 84 ter legge n. 219 del 1981 e 6 legge n. 730 del 1986 avrebbero potuto più semplicemente stabilire che sono acquisibili anche aree comprensive di edifici, la cui demolizione fosse necessaria per la realizzazione del programma. Resta  fermo,  pertanto,  che per acquisire aree su cui insistono edifici, occorre che questi ultimi siano in sè, e già prima dell'intervento espropriativo, da destinare alla demolizione. Invece, l'art. 6, comma 7, legge n. 730 del 1986 stabilisce che gli edifici acquisiti possono comunque essere demoliti per ragioni urbanistiche. L'art. 6, comma 7, pertanto, riduce, rispetto all'art. 84 ter l'onere di  motivazione in ordine alle ragioni urbanistiche della demolizione, ma non modifica  i  presupposti  per l'acquisizione di edifici. Siffatta complessiva ricostruzione e interpretazione del quadro normativo è suffragata, ad avviso del Collegio, pure da un altro ordine di considerazioni. Se fossero state acquisibili anche aree comprensive di edifici non  destinati alla demolizione già ex ante, ma da demolire per la realizzazione  del  programma, la formulazione delle norme in questione avrebbe potuto essere ben più semplice; in particolare, l'art. 80 legge n. 219 del 1981 poteva fare riferimento alle aree disponibili ed  immediatamente utilizzabili, anche  se comprendenti edifici, senza specificare che deve trattarsi di edifici da demolire. A loro volta, gli artt. 84 ter legge n. 219 del 1981 e 6 legge n.  730 del 1986 avrebbero potuto più semplicemente stabilire che sono acquisibili  anche aree comprensive di edifici, la cui demolizione fosse necessaria per la realizzazione del programma.  Quanto, poi, all'art. 3 D.L. 28 aprile 1988, n. 115, invocato  dal  Consorzio E., lo stesso è irrilevante nel caso di specie, in quanto i provvedimenti impugnati risalgono ad epoca anteriore a tale normativa, che è pertanto inapplicabile. Va da ultimo considerato che la espropriazione dell’area è stata disposta in quanto contenente un muraglione pericolante, con pericolo di rovinare sui sottostanti costruendi alloggi, sulla sommità del quale sono ubicati gli immobili di proprietà dei ricorrenti in primo grado, anch’essi da demolire. Senonché nel giudizio di primo grado è risultato accertato che la parte di muraglione pericolante non è quella prospiciente gli edifici da edificare, ma altra esistente più oltre, e tali risultanze non sono state smentite nel giudizio di secondo grado. Inoltre, l’appellante osserva che che sull’area di risulta è prevista la realizzazione di un sistema di vie, scale mobili ed ascensori per collegare l’area di Piazza Mazzini alla sottostante Montesanto. Senonché queste opere, così descritte, costituiscono opere di arredo urbano e non di urbanizzazione primaria o secondaria funzionalmente collegate alle realizzazioni di alloggi per le esigenze del dopo terremoto, per cui la specifica procedura della legge 219 del 1980 non può convenientemente essere utilizzata. Consiglio di Stato, Sezione IV, del 7 novembre 2002 sentenza n. 6070 (vedi: sentenza per esteso)

La realizzazione di alloggi per le popolazioni a seguito di eventi sismici - definizione di aree disponibili ed immediatamente utilizzabili - aree inedificate - edifici la cui demolizione sia necessaria. L'espressione aree disponibili ed immediatamente utilizzabili si riferisce, nella formulazione originaria dell'art. 80, legge n. 219 del 1981, alle sole aree inedificate, e, nel testo novellato dal D.L. n. 333 del 1981, anche alle aree comprendenti edifici la cui demolizione sia necessaria per una causa diversa e anteriore all'intervento espropriativo (Cons. Stato, IV Sez., 3 marzo 1987, n. 126; id., 20 luglio 1988, n. 623; id., 24 marzo 1989, n. 185; id. 3 ottobre 1990, n. 723; id., 7 febbraio 1991, nn. 83, 85 e 86). Questa interpretazione restrittiva merita adesione da un lato, perché la legge n. 219 del 1981 contiene in materia espropriativa deroghe in via di eccezione alla normativa ordinaria di settore, di talché va interpretata secondo criteri rigorosi. Dall'altro lato, se lo scopo della procedura ablatoria delineata dalla legge n. 219 del 1981 è la realizzazione di alloggi per le popolazioni che a seguito dei noti eventi sismici del 1980 sono rimaste prive di abitazione agibile, siffatto scopo, peraltro, deve coerentemente inserirsi in una logica più generale di ricostruzione postsismica, e di risparmio di risorse, essendo il soccorso alle popolazioni terremotate e la ricostruzione un costo per l'intera collettività. In tale logica, se ha un senso demolire edifici con caratteristiche intrinseche di destinazione alla demolizione, perché, essendo danneggiati dal sisma o altre cause, non sono recuperabili, appare antieconomico e contrario agli scopi e ai costi della ricostruzione demolire edifici sani o comunque recuperabili a costi minori di quelli che implicherebbe la demolizione e ricostruzione degli stessi. Ciò posto in ordine alla interpretazione seguita dell'art. 80 legge n. 219 del 1981, come novellato dal D.L. n. 333 del 1981, occorre verificare se siffatta interpretazione sia ancora valida a seguito delle sopravvenienze normative di cui agli artt. 84 ter legge n. 219 del 1981 e 6 legge n. 730 del 1986. L’art. 84 ter legge n. 219 del 1981, introdotto dall'art. 11 L. 18 aprile 1984 n. 80, stabilisce che gli edifici compresi nelle aree acquisite ai sensi dell'art. 80 possono essere demoliti, anche per motivate ragioni urbanistiche inerenti alla realizzazione del programma stesso. L'art. 6, comma 7, L. 28 ottobre 1986, n. 730, stabilisce che le disposizioni di cui al comma 2 dell'art. 80 della L. 14 maggio 1981, n. 219, nonché quelle di cui al comma 3 dell'art. 84 ter della medesima legge devono essere intese nel senso che gli edifici individuati possono essere comunque demoliti per ragioni urbanistiche inerenti alla realizzazione del programma. Ritiene il Collegio, aderendo ad un orientamento più volte espresso e ribadito anche di recente (Sez. IV, 8 giugno 2000, 3244; Sez. VI, 29 settembre 1999, n. 1276; Sez. IV, 12 gennaio 1999, n. 12), che le sopravvenienze normative avanti citate non siano idonee a disattendere la interpretazione restrittiva dell'art. 80 legge n. 219 del 1981 suesposta (Cons. Stato, IV Sez., 20 maggio 1996, n. 644; id., 20 luglio 1988, n. 623 cit.). Consiglio di Stato, Sezione IV, del 7 novembre 2002 sentenza n. 6070 (vedi: sentenza per esteso)

Nuove disposizioni di cui alla legge n. 443 del 2001 - demolizione e ricostruzione - denuncia di inizio attivita' - sufficienza. A seguito dell'entrata in vigore della legge 21 dicembre 2001 n. 443, cd legge obiettivo, la demolizione e ricostruzione di un preesistente manufatto, operata senza modifica della volumetria e della sagoma, e' subordinata, ex art. 1, comma 6, alla semplice denunzia di inizio attivita', la cui mancanza non determina alcun illecito penale. Si veda anche: Cass. 2002 n. 18216; Cass. 2002 n. 19378. Corte di Cassazione, Sez. III Sentenza del 04/11/2002 (CC.02/07/2002) n. 36539

Immobile costruito abusivamente - proprietario che non abbia conferito l'incarico - reato di cui all'art. 20 legge n. 47 del 1985 - responsabilita' - esclusione - fondamento. In tema di costruzione abusiva, non puo' essere ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 20 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 il proprietario che abbia dato il semplice consenso o la sola approvazione ad un incarico conferito da altro proprietario o da altro detentore, atteso che trattasi di comportamenti che non si risolvono in un contributo causale alla realizzazione del fatto illecito. Conforme: Cassazione penale, sez. III, 1 giugno 1998, n. 1747; Cassazione penale, sez. III, 7 maggio 1998, n. 7148; Cass. 2000 n.10284 ; Contra: Cassazione penale, sez. III, 12 luglio 1999, n. 12163; Vedi anche: Cass. 1997 n.4997; Cass.1999 n.294; Cass. 1999 n.5476; Corte di Cassazione, Sez. III Sentenza del 25/10/2002 (UD.26/09/2002) n. 35855

Disciplina urbanistica - nuove disposizioni di cui al d.p.r. n. 380 del 2001 e alla legge 21 dicembre 2001, n. 443 - opere interne - interventi di ristrutturazione, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo - realizzazione nei centri storici con mutamento di destinazione d'uso - concessione edilizia (permesso di costruire) - necessita'. Alla stregua della vigente disciplina urbanistica, ivi compresa quella dettata dall'art. 1 , comma 6 lett. b), della legge 21 dicembre 2001, n. 443, e di quella contenuta negli artt. 3, comma 1 e 10, comma 1 del T.U. approvato con D.P.R. n. 380/2001 (rimasto in vigore dall'1 al 9 gennaio 2002 ed entrato in vigore in modo definitivo il 1 gennaio 2003), le opere interne e gli interventi di ristrutturazione edilizia, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo necessitano di concessione edilizia (permesso di costruire), ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie d'interventi funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea. Gli stessi, qualora debbano essere realizzati fuori dei centri storici e comportino mutamento della destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea, richiedono, invece, soltanto la semplice denuncia di attivita' (DIA). Vedi: Cass. 2002 n. 18216. Corte di Cassazione, Sezione III del 21/10/2002 (UD.12/07/2001) Sentenza n. 35177

L'omissione dei lavori necessari a rimuovere il pericolo di rovina di un edificio - direttore dei lavori - l'imputabilità della contravvenzione configurata dall'art. 677 cod. pen. - presupposti. Per l'imputabilità della contravvenzione configurata dall'art. 677 cod. pen., è necessaria quella volontà cosciente e libera, cui è condizionata, a norma dell'ultimo comma dell'art. 42 cod. pen., l'imputabilità di ogni ipotesi di reato contravvenzionale (Sez. I, 17.10.1972, Spano, Cass. pen. Mass. ann. 1973, 1492). Infatti, l'omissione dei lavori necessari a rimuovere il pericolo di rovina di un edificio deve essere volontaria, onde l'impossibilità di eseguirli, non dipendente da colpa, escludendo la libera volontà della condotta del reo, elimina il reato. Cassazione penale, sez. I, del 18 ottobre 2002 sentenza n. 35144

Il direttore dei lavori - compiti - sorveglianza per la buona riuscita dell'opera - ha il dovere di accertarsi che i suoi ordini e le sue istruzioni siano fedelmente eseguiti - responsabilità dei danni provocati - limite - presupposto indispensabile che vi siano dei lavori in corso - funzione. Il direttore dei lavori, essendo tenuto alla sorveglianza per la buona riuscita dell'opera, ha il dovere di accertarsi che i suoi ordini e le sue istruzioni siano fedelmente eseguiti, di guisa che, mentre deve ritenersi direttamente responsabile dei danni provocati dalla infedele o imperfetta esecuzione degli ordini stessi, non gli si può fare carico di quelli determinatisi al di fuori della sua sorveglianza del buon andamento dei lavori (cfr., sul punto, Cass. civ., 12.7.1965, n. 1456, Degli Esposti - Russo, Mass. Giur. It., 1965, 524), dal momento che la funzione del direttore dei lavori presuppone sempre che vi siano dei lavori in corso, stante la definizione dei compiti di tale soggetto prevista nell'art. 13 del regolamento per la direzione di lavori pubblici (r.d. 25.5.1895 n. 350) - applicabile se non espressamente derogato anche agli appalti privati - secondo cui «...il direttore prenderà l'iniziativa di ogni disposizione necessaria, acciocché i lavori, cui è preposto, siano eseguiti a perfetta regola d'arte, ed in conformità dei relativi progetti e contratti...», di tal che nel caso di prolungata sospensione dei medesimi viene meno la ragion d'essere di tale funzione. Cassazione penale, sez. I, del 18 ottobre 2002 sent. n. 35144

Differenza tra manutenzione straordinaria e ristrutturazione edilizia. In virtù dell'art. 31 l. 5 agosto 1978 n. 457, per definire manutenzione straordinaria un determinato intervento edilizio, non basta che esso miri alla conservazione della destinazione d'uso dell'edificio, occorrendo altresì che esso soggiaccia a due ulteriori limiti, uno di carattere funzionale (costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio stesso) e l'altro di natura strutturale (consistente nel divieto d'alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari), per cui un intervento che modifichi la consistente fisica, interna ed esterna, delle preesistenze e si limiti a salvaguardare in parte la precedente destinazione d'uso ha natura ristrutturativa e non manutentiva (C.d.S., V, 23 maggio 2000, n. 2988). (Nella fattispecie è bastato un semplice esame della documentazione progettuale per rilevare la diversa funzionalità assegnata a parti cospicue dell’edificio con l’introduzione di elementi di specifica novità nell’uso degli spazi e con la modificazione dei rapporti tra i due ultimi piani e la destinazione di due unità abitative nell’originario sottotetto. Questo solo elemento è idoneo a configurare l’intervento in questione come di ristrutturazione edilizia. Risulta pertanto evidente come non si tratti di interventi destinati esclusivamente a assicurare la funzionalità dell’organismo edilizio preesistente, essendo i medesimi diretti a realizzare un quid novi nel rapporto tra le parti dell’edificio (C.d.S., V, 2 dicembre 1998, n. 1176), come dimostra la parziale destinazione a struttura ricettiva). Consiglio di Stato, sez. V, 18 ottobre 2002, n. 5775

Espressa previsione di un indennizzo in favore del proprietario di terreni su cui siano reiterati vincoli urbanistici di natura espropriativa - l’adozione della variante - atti di pianificazione generale il quantum dell’indennizzo. L’espressa previsione di un indennizzo in favore del proprietario di terreni su cui siano reiterati vincoli di natura espropriativa si rende necessaria non quale atto ricognitivo di un diritto ormai attribuito all’interessato dalla stessa legislazione vigente, come modificata a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999, bensì al fine di attestare la compiuta ed adeguata ponderazione da parte dell’Amministrazione di tutti i presupposti ed effetti, di fatto e giuridici, del provvedimento adottato. In particolare, il fatto che l’adozione della variante in esame comporti un costo per l’Amministrazione, dovendo essere corrisposti indennizzi per la reiterazione di vincoli preordinati all’espropriazione e decaduti, costituisce uno specifico effetto del provvedimento, che l’Amministrazione deve adeguatamente apprezzare quando compie le proprie scelte di pianificazione urbanistica e che deve ricevere evidenza anche nel contenuto dell’atto. Il Collegio ritiene, quindi, di doversi attenere ai principi di diritto già enunciati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio con il citato arresto n. 24 del 1999, con cui si è precisato che “in base alla richiamata sentenza della Corte costituzionale, l’Amministrazione, nel reiterare vincoli urbanistici preordinati all’espropriazione […] avrebbe dovuto prevedere il relativo indennizzo”, e da ultimo confermati con la decisione di questa Sezione n. 664 del 2002. Va, tuttavia, precisato che la adeguata ponderazione da parte dell’Amministrazione degli oneri conseguenti alla reiterazione dei vincoli in parola non può esaurirsi nel mero riconoscimento che i proprietari dei terreni interessati hanno diritto ad un indennizzo, ma postula una valutazione in termini più concreti del costo della scelta pianificatoria, nei limiti in cui ciò sia compatibile con la natura propria degli atti amministrativi di pianificazione generale, che (a differenza dei decreti di espropriazione) sono destinati ad introdurre disposizioni caratterizzate da un elevato livello di generalità ed astrattezza. L’Amministrazione, quindi, tenuto conto della natura e delle finalità dell’atto, non è obbligata ad indicare direttamente negli atti di pianificazione generale il quantum dell’indennizzo previsto per ciascun proprietario, ma non può neppure limitarsi a prevedere genericamente la corresponsione di un indennizzo non meglio definito, dovendo piuttosto precisare - quale requisito di legittimità del provvedimento - anche i criteri generali in base ai quali procederà alla liquidazione degli importi dovuti. L’obbligo di indicazione dei suddetti criteri generali trova il suo fondamento nei principi enunciati nella motivazione della citata sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999. La Corte, pur escludendo di poter indicare direttamente i criteri per la concreta liquidazione dell’indennizzo in parola, ha, infatti, riconosciuto che “anche in caso di persistente mancanza di specifico intervento legislativo determinativo di criteri e parametri per la liquidazione delle indennità, il giudice competente sulla richiesta di indennizzo, una volta accertato che i vincoli imposti in materia urbanistica abbiano carattere espropriativo nei sensi suindicati” può “ricavare dall’ordinamento le regole per la liquidazione di obbligazioni indennitarie, nella specie come obbligazioni di ristoro del pregiudizio subito dalla rinnovazione o dal protrarsi del vincolo”. Nello stesso senso: Consiglio di Stato, sez. IV, 18 ottobre 2002, nn. 5720 - 5719 - 5718 - 5717 - 5715. Consiglio di Stato, sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5723

I principi in base ai quali può procedersi alla liquidazione dell’indennizzo su cui siano reiterati vincoli urbanistici (piano regolatore generale - piani particolareggiati) di natura espropriativi - la relazione economica e finanziaria. I principi in base ai quali può procedersi alla liquidazione dell’indennizzo sono, quindi, secondo la Corte costituzionale n. 179 del 1999, già desumibili dall’ordinamento vigente, prima ed a prescindere da uno specifico intervento del legislatore, e devono, pertanto, essere individuati e precisati dalla stessa Amministrazione in sede di rinnovazione del vincolo; l’intervento eventuale e suppletivo del giudice postula, infatti, uno specifico dovere a carico dell’Amministrazione, che sia suscettibile di adempimento e che sia rimasto inadempiuto nel caso di specie. D’altro canto, la Corte offre già all’interprete alcune indicazioni utili al fine della individuazione dei criteri di liquidazione dell’indennizzo, precisando che: - “Detto indennizzo non è, nella quasi totalità dei casi [...] , rapportabile a perdita di proprietà. Né può essere utilizzato un criterio di liquidazione ragguagliato esclusivamente al valore dell’immobile, in quanto il sacrificio subito consiste, nella maggior parte dei casi, in una diminuzione di valore di scambio o di utilizzabilità”; - “L’indennizzo per il protrarsi del vincolo è un ristoro (non necessariamente integrale o equivalente al sacrificio, ma neppure simbolico) per una serie di pregiudizi che si possono verificare a danno del titolare del bene immobile colpito, e deve essere commisurato o al mancato uso normale del bene, ovvero alla riduzione di utilizzazione, ovvero alla diminuzione di prezzo di mercato (locativo o di scambio) rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo”. Appare, invece, eccessivo imporre all’Amministrazione, oltre alla definizione di tali criteri, anche l’immediata determinazione ed indicazione degli specifici costi mediante la contestuale predisposizione della relazione economica e finanziaria, trattandosi di una valutazione difficilmente effettuabile in sede di pianificazione generale dell’assetto urbanistico del territorio comunale. Deve osservarsi, a tale riguardo, che l’articolo 30 della legge urbanistica - a mente del quale “il piano regolatore generale, agli effetti del primo comma dell’articolo 18, ed i piani particolareggiati previsti dall’articolo 13 sono corredati da una relazione di previsione di massima delle spese occorrenti per la acquisizione delle aree e per le sistemazioni generali necessarie per l’attuazione del piano” - non impone che la predisposizione del piano regolatore generale e della relazione in parola siano contestuali. Merita, quindi, conferma la consolidata soluzione giurisprudenziale che non include la contestuale predisposizione della relazione economica e finanziaria fra i presupposti di legittimità dell’atto di adozione di uno strumento urbanistico generale. Nello stesso senso: Consiglio di Stato, sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5720. Consiglio di Stato, sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5723

Le opere realizzate all’interno della fascia di rispetto autostradale non sono suscettibili di sanatoria - vincolo di inedificabilità assoluta fuori del centro abitato - la deroga nel perimetro del centro abitato - la sopraelevazione di edificio - l’esclusionedella natura edificatoria del terreno rientrante nella fascia di rispetto. Le opere realizzate all’interno della fascia di rispetto autostradale prevista al di fuori del perimetro del centro abitato (fascia di sessanta metri) sono ubicate in aree assolutamente inedificabili e, pertanto, se costruite dopo l’imposizione del vincolo, rientrano nella previsione di cui all’articolo 33, comma 1, lettera d) della legge 28 febbraio 1985, n. 47 e non sono suscettibili di sanatoria.  A tale riguardo giova premettere che, ai sensi dell’articolo 41-septies, commi 1 e 2 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150 (articolo aggiunto dall’articolo 19 della l. 6 agosto 1967, n. 765) “Fuori del perimetro dei centri abitati debbono osservarsi nell’edificazione distanze minime a protezione del nastro stradale, misurate a partire dal ciglio della strada. Dette distanze vengono stabilite con decreto del Ministro per i Lavori pubblici di concerto con i Ministri per i trasporti e per l’Interno, entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, in rapporto alla natura delle strade ed alla classificazione delle strade stesse, escluse le strade vicinali e di bonifica”. Tale vincolo di inedificabilità è configurato come assoluto nel caso di autostrade per le aree situate al di fuori del centro abitato, perché - ai sensi del D.M. 1 aprile 1968 - è esclusa ogni possibilità di deroga alla distanza minima, fissata in sessanta metri (la fascia di rispetto è, invece, ridotta a venticinque metri all’interno del perimetro del centro abitato ed è derogabile a mente dell’articolo 9, comma 1 della legge 24 luglio 1961, n. 729). In tal senso si è espressa sia la giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., 14 gennaio 1987, n. 193, per cui non  è suscettibile di sanatoria, ai sensi della citata legge n. 47 del 1985, la sopraelevazione di edificio che disti dal ciglio dell’autostrada, all’esterno dei centri abitati, meno di quanto previsto dal d. m. 1 aprile 1968,  se la sopraelevazione è stata  realizzata dopo l’imposizione del vincolo autostradale; v. anche Cass. civ., 26 gennaio 2000, n. 841, che per tale ragione esclude la natura edificatoria del terreno rientrante nella fascia di rispetto) sia quella del Consiglio di Stato (Sez. V, 8 settembre 1994, n. 968, che qualifica come inedificabile l’area ricompresa nella predetta fascia di rispetto). Le distanze previste dalla norma suddetta vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale (in termini, Cass. civ., 1 giugno 1995, n. 6118) o che costituiscano mere sopralevazioni (v. la citata Cass. civ., 14 gennaio 1987, n. 193), o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti. Consiglio di Stato, sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5716

Ristrutturazione edilizia - gli interventi di demolizione e ricostruzione di un fabbricato. Nella ristrutturazione edilizia rientrano anche gli interventi di demolizione e ricostruzione di un fabbricato che, quanto a sagoma e volumi, sia corrispondente a quello preesistente,  in tutto o in parte. (Nella fattispecie lo stato degli  immobili consente in modo certo di individuare la tipologia, dimensione e struttura dell’intervento di ristrutturazione edilizia in quanto la sagoma e le strutture perimetrali sono  per gran parte esistenti come risulta dalla documentazione fotografica acquisita agli atti). Consiglio di Stato, sezione V, 2 ottobre 2002, n. 5182

La possibilità del giudice amministrativo di pronunciarsi su questioni di diritto “incidenter tantum” non è illimitata - situazioni di diritto soggettivo - rilascio della concessione edilizia - titolo di proprietà - esibizione dell’atto notarile. La possibilità del giudice amministrativo di pronunciarsi su questioni di diritto “incidenter tantum” non è illimitata, esulando dalla sua competenza l’esame delle situazioni di diritto soggettivo che non implichino una semplice indagine incidentale sui presupposti di fatto e di diritto del provvedimento impugnato, ma rendano necessaria – come nella fattispecie – una pronuncia giurisdizionale definitiva. Sulla base di tale condiviso presupposto, va anche ribadita la legittimità dell’operato del Sindaco in quanto questi in sede di rilascio della concessione edilizia non è tenuto a svolgere complesse ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà del richiedente, essendo sufficiente l’esibizione di un titolo che formalmente abiliti al rilascio dell’autorizzazione, facendo ovviamente salvi i diritti dei terzi. E questo è accaduto nella fattispecie in cui il Sindaco ha rilasciato l’autorizzazione sulla base dell’esibizione da parte del controinteressato-richiedente di un atto notarile, rimanendo impregiudicata per gli attuali appellanti l’azione giudiziaria davanti al competente giudice circa l’effettiva proprietà della strada. Consiglio di Stato, sezione V, 2 ottobre 2002, n. 5165

L’attribuzione agli uffici tecnici comunali di compiti di progettazione delle opere pubbliche - la retribuzione - professionisti esterni incarichi di progettazione - la discrezionalità riservata all’Amministrazione. L’attribuzione agli uffici tecnici comunali di compiti di progettazione delle opere pubbliche, nel rispetto peraltro delle norme sui limiti delle competenze professionali, rientrerebbe tra i compiti istituzionali ai sensi dell’art. 285 t.u. com. prov., come modificato dall’art. 16 della l. 530/47; con la conseguenza che l’eventuale disimpegno di incombenze come tali caratterizzate, cioè dirette al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente, ove esclusivamente pertinenti  all’attività di servizio e quindi non oggetto di compenso al di fuori della retribuzione per legge predeterminata, non può ex se rivelarsi inibito. Altrimenti opinandosi, verrebbe a delinearsi, soluzione alla quale – ad avviso del Tribunale di prima istanza – non può con ogni evidenza  in alcun modo accedersi, un vero e proprio obbligo di affidare – sempre e comunque – a professionisti esterni gli incarichi di progettazione onde trattasi, con riveniente preclusione per l’Amministrazione di risolvere in ambito interno (e con risorse proprie) le relative problematiche di carattere ideativo e configurativo. Le predette conclusioni non risulterebbero modificate dall’intervenuta abrogazione della rammentata disposizione di cui al citato art. 285 per effetto dell’art. 64 della l. 142/90, al riguardo dovendosi richiamare l’ampia latitudine discrezionale riservata all’Amministrazione dall’art. 51 del predetto testo normativo quanto allo svolgimento della potestà auto-organizzativa, nonché la configurazione in termini meramente facoltativi del ricorso allo strumento negoziale di diritto privato per lo svolgimento di attività a vario titolo connesse con il perseguimento dei fini istituzionali dell’ente. La disposizione impugnata non contrasterebbe neppure con l’art. 58, comma 2, del d.lg. 29/93, recante il divieto di conferire ai dipendenti pubblici incarichi non compresi nei compiti e doveri d’ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o da altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati, trattandosi di legittimo esercizio di incombenze istituzionalmente rimesse all’ente. Consiglio di Stato, sezione V, 2 ottobre 2002, n. 5163 (vedi: sentenza per esteso)

Le progettazioni rientrano nelle competenze istituzionali delle strutture tecniche ed amministrative del Comune - la possibilità di derogare a tale principio per casi particolari, affidando incarichi “esterni” - l’apprezzamento discrezionale della P.A.. Le progettazioni rientrano nelle competenze istituzionali delle strutture tecniche ed amministrative del Comune, sicché, in relazione alle competenze istituzionalmente demandate  alle strutture organizzative comunali viene prevista un’ipotesi a regime che contempla lo svolgimento, ad opera del personale ivi addetto, delle rammentate incombenze, consentendo peraltro la possibilità di derogare a tale principio per casi particolari, affidando incarichi “esterni”. La previsione in discorso rientrerebbe pertanto nel consentito ambito di svolgimento dell’apprezzamento discrezionale della P.A., il cui esercizio, lungi dal comprimere la libera esplicazione dell’attività professionale  (e quindi dal precludere la possibilità per l’Amministrazione di conferire  incarichi di progettazione mediante attività negoziale di diritto privato), si limiterebbe –invero non irragionevolmente– a privilegiare l’utilizzazione delle risorse tecniche ed amministrative proprie della struttura organizzativa dell’ente. Consiglio di Stato, sezione V, 2 ottobre 2002, n. 5163  (vedi: sentenza per esteso)

Il tecnico comunale ha diritto agli onorari relativi agli incarichi di progettazione ricevuti dall'Ente di appartenenza solo se gli stessi non abbiano comportato lo svolgimento dei compiti propri del posto ricoperto e siano stati svolti al di fuori dell'orario di servizio - trattamento retributivo - mansioni. Il tecnico comunale ha diritto agli onorari relativi agli incarichi di progettazione ricevuti dall'Ente di appartenenza solo se gli stessi non abbiano comportato lo svolgimento dei compiti propri del posto ricoperto e siano stati svolti al di fuori dell'orario di servizio. Orbene, poiché appare chiaro che nel caso di specie la regolamentazione generale si riferisce all’attribuzione ai dipendenti del ruolo tecnico  di mansioni nell'ambito dello svolgimento delle funzioni proprie delle qualifiche, secondo le competenze istituzionali delle strutture di appartenenza, ne consegue, come effetto naturale, la non attribuibilità di compenso, non trattandosi di incarichi speciali, per i quali, invece, può legittimamente prevedersi una  retribuzione (cfr. Cons. Stato, V, 29 settembre 1999, n. 1200). Può dunque concludersi conformemente al principio secondo cui il divieto di percepire compensi, stabilito per i pubblici dipendenti assoggettati al regime dell'onnicomprensività del trattamento retributivo, opera inderogabilmente in tutti i casi in cui l'attività svolta dall'impiegato sia riconducibile a funzioni e poteri connessi alla di lui qualifica e all'ufficio ricoperto, corrispondenti a mansioni cui egli non possa sottrarsi perché rientranti nei normali compiti di servizio, fermo restando che siffatto principio non esclude che gli stessi dipendenti possano espletare incarichi retribuiti a titolo professionale dall'Amministrazione, ove, però, ne ricorrano i presupposti legali e sempre che non costituiscano comunque espletamento di compiti d'istituto (cfr., in tema, anche Cons. Stato, VI, 5 marzo 1997, n. 363). Consiglio di Stato, sezione V, 2 ottobre 2002, n. 5163  (vedi: sentenza per esteso)

Le opere realizzate all’interno della fascia di rispetto autostradale (fascia di sessanta metri fuori del centro abitato) - aree assolutamente inedificabili non suscettibili di sanatoria - la fascia di rispetto ridotta a venticinque metri all’interno del perimetro del centro abitato ed è derogabile. Le opere realizzate all’interno della fascia di rispetto autostradale prevista al di fuori del perimetro del centro abitato (fascia di sessanta metri) sono ubicate in aree assolutamente inedificabili e, pertanto, se costruite dopo l’imposizione del vincolo, rientrano nella previsione di cui all’articolo 33, comma 1, lettera d) della legge 28 febbraio 1985, n. 47 e non sono suscettibili di sanatoria, anche se si tratti di mere soprelevazioni di manufatti preesistenti ed anche se l’opera resti al di sotto del livello della strada. A tale riguardo giova premettere che, ai sensi dell’articolo 41-septies, commi 1 e 2 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150 (articolo aggiunto dall’articolo 19 della l. 6 agosto 1967, n. 765) “Fuori del perimetro dei centri abitati debbono osservarsi nell’edificazione distanze minime a protezione del nastro stradale, misurate a partire dal ciglio della strada. Dette distanze vengono stabilite con decreto del Ministro per i Lavori pubblici di concerto con i Ministri per i trasporti e per l’Interno, entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, in rapporto alla natura delle strade ed alla classificazione delle strade stesse, escluse le strade vicinali e di bonifica”. Tale vincolo di inedificabilità è configurato come assoluto nel caso di autostrade per le aree situate al di fuori del centro abitato, perché - ai sensi del D.M. 1 aprile 1968 - è esclusa ogni possibilità di deroga alla distanza minima, fissata in sessanta metri (la fascia di rispetto è, invece, ridotta a venticinque metri all’interno del perimetro del centro abitato ed è derogabile a mente dell’articolo 9, comma 1 della legge 24 luglio 1961, n. 729). Il ricorrente, che ha realizzato un’opera abusiva all’interno della predetta fascia di rispetto ed al di fuori del perimetro del centro abitato, non può, inoltre, avvalersi della possibilità di sanatoria offerta dall’articolo 32, comma 4, lettera c) della citata legge n. 47 del 1985 (per cui “Sono suscettibili di sanatoria, alle condizioni sottoindicate, le opere insistenti su aree vincolate  dopo la loro esecuzione e che risultino: […] c) in contrasto con le norme del D.M. 1 aprile 1968 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13 aprile 1968, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”), perché nella fattispecie in esame il vincolo sull’area era stato imposto prima della costruzione del manufatto. Trova, allora, applicazione la norma di cui all’articolo 33, comma 1, lettera d) della legge 28 febbraio 1985, n. 47, che esclude la possibilità di sanatoria delle opere di cui al precedente articolo 31 “quando siano in contrasto con  i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse: […] d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree”. In tal senso si è espressa sia la giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., 14 gennaio 1987, n. 193, per cui non  è suscettibile di sanatoria, ai sensi della citata legge n. 47 del 1985, la sopraelevazione di edificio che disti dal ciglio dell’autostrada, all’esterno dei centri abitati, meno di quanto previsto dal d. m. 1 aprile 1968,  se la sopraelevazione è stata  realizzata dopo l’imposizione del vincolo autostradale; v. anche Cass. civ., 26 gennaio 2000, n. 841, che per tale ragione esclude la natura edificatoria del terreno rientrante nella fascia di rispetto) sia quella del Consiglio di Stato (Sez. V, 8 settembre 1994, n. 968, che qualifica come inedificabile l’area ricompresa nella predetta fascia di rispetto). Consiglio di Stato, sezione IV, 25 settembre 2002, n. 4927 (vedi: sentenza per esteso)

Fascia di rispetto autostradale - il carattere assoluto del vincolo sussiste a prescindere dalla concrete caratteristiche dell’opera realizzata - pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla incolumità delle persone - l’esigenza di assicurare fascia di rispetto utilizzabile. Va, inoltre, osservato che il carattere assoluto del vincolo sussiste a prescindere dalla concrete caratteristiche dell’opera realizzata. Infatti il divieto di costruire ad una certa distanza dalla sede autostradale, posto dall’articolo 9 della legge 24 luglio 1961, n. 729 e dal successivo d.m. 1 aprile 1968, non può essere inteso restrittivamente e cioè come previsto al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi con la presenza di costruzioni. Pertanto le distanze previste dalla norma suddetta vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale (in termini, Cass. civ., 1 giugno 1995, n. 6118) o che costituiscano mere sopralevazioni (v. la citata Cass. civ., 14 gennaio 1987, n. 193), o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti. Va, infine, osservato che non è più operante la sospensione del giudizio amministrativo in pendenza di sanatoria, essendo decorso il termine di cui all’articolo 44, comma 1 della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Consiglio di Stato, sezione IV, 25 settembre 2002, n. 4927 (vedi: sentenza per esteso)

L’obbligo di osservare la distanza dalle vedute prescritta dall’art. 907 cod. civ. - la presenza di una norma regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine - distacco tra le costruzioni - l’usucapione o la convenzione, del diritto ad avere vedute verso il fondo vicino. Solo in presenza di una norma regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine si ponga l’esigenza di una equa ripartizione tra proprietari confinanti dell’onere di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione, con la conseguente possibilità, per il prevenuto, di costruire in aderenza alla fabbrica costruita per prima, se questa sia stata posta sul confine o a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra fabbricati (cfr. ex Multis, Cass. n. 5364/ 1997; Cass., n. 10600/ 1999; Cass., n. 13963/ 2000). In definitiva deve ritenersi che nessuna ragione osti all’applicabilità del principio codicistico della prevenzione nei casi in cui, come quello in esame, i rapporti tra vicini siano disciplinati dall’art. 17, comma 1°, lett. c), legge n. 675/1967 e che, conseguentemente, il prevenuto abbia, ai sensi dell’art. 875 cod. civ., la facoltà di chiedere la comunione forzosa del muro del preveniente che si trovi a distanza dal confine inferiore alla metà della distanza tra fabbricati prescritta dalla citata norma speciale. Va precisato, peraltro, che all’esercizio di tale facoltà non osta la circostanza che sulla parete del fabbricato che fronteggia la costruzione dei prevenuti siano state eventualmente aperte, iure proprietatis, delle vedute, poichè, come ritenuto dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr. sent. n. 4384/1982; sent. n. 5269/ 1985; sent. n. 3859/ 1988), l’obbligo di osservare la distanza dalle vedute prescritta dall’art. 907 cod. civ. presuppone che colui che ha costruito per primo abbia acquistato, ad es. per usucapione o per convenzione, il diritto ad avere vedute verso il fondo vicino. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili - Sentenza 1 agosto 2002 sentenza, n. 11489 (vedi: sentenza per esteso)

Distanze legali - l’applicabilità della disciplina codicistica dettata dall’art. 875 cod. civ. in tema di comunione forzosa del muro che non è sul confine - c.d. diritto di prevenzione - le facoltà concessegli dagli artt. 875 e 877 cod. civ. - dottrina e giurisprudenza. In tema di distanze legali, al fine di escludere l’applicabilità delle limitazioni, previste dall’art. 17 della c.d. legge ponte del 6 agosto 1967, n. 765, è necessario che il regolamento edilizio provveda direttamente sulle distanze, in quanto solo in tal caso viene meno l’esigenza dell’indicata norma suppletiva, la cui finalità è di impedire che, in mancanza di norme urbanistiche, l’attività costruttiva si svolga senza rispetto del decoro edilizio, dell’igiene e della salubrità indispensabile per l’ordinato sviluppo del territorio. Pertanto, qualora il regolamento edilizio sia privo di disposizioni sulle distanze legali, devono applicarsi quelle previste dall’art. 17 legge citata, non già la disciplina dell’art. 873 c.c. Tale condiviso insegnamento vale ad escludere, altresì, l’applicabilità della norma di cui all’art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, che, peraltro, non è immediatamente precettiva nei rapporti tra privati, poiché nell’imporre determinati limiti edilizi nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, si rivolge solo ai comuni /cfr. Cass., SS.UU. 1 luglio 1997, n. 5889), sicchè, nell’ipotesi che lo strumento urbanistico, pur approvato, non provveda in tema di distanze, ipotesi sostanzialmente equipollente a quella della mancanza dello strumento urbanistico, resisterà operante il precetto dettato dalla norma suppletiva di cui all’art. 17 della legge ponte. È, dunque, con riferimento alla norma dettata dall’art. 17 legge n. 765 del 1967 non già con riferimento alla norma posta dall’art. 9 D.M. n. 1444 del 1968 che va risolta il problema, posto dai motivi in esame, dell’applicabilità della disciplina codicistica dettata dall’art. 875 cod. civ. in tema di comunione forzosa del muro che non è sul confine e, quindi, di possibilità, per il vicino, di costruire contro il muro stesso, problema, la cui soluzione è strettamente connessa alla soluzione del problema dell’applicabilità del principio, anch’esso desumibile dalla disciplina codicistica in tema di distanze tra fabbricati, del c.d. diritto di prevenzione, cioè del diritto di colui che tra i confinanti costruisce per primo, di costruire sul confine o a distanza inferiore alla metà della distanza di legge tra costruzioni finitime ovvero a distanza pari alla metà, si da costringere il vicino, che nella prima e nella seconda delle suddette ipotesi non intenda esercitare le facoltà concessegli dagli artt. 875 e 877 cod. civ., a costruire a distanza tale dalla costruzione del preveniente da assicurare comunque il rispetto della distanza di tre metri prescritta dall’art. 873 cod. civ. o dell’altra, maggiore, mento urbanistico locale. Sul punto in dottrina ed in giurisprudenza si registrano due orientamenti: un primo orientamento, che, in termini sostanzialmente unitari, da risposta positiva, all’interrogativo della compatibilità tra disciplina codicistica e disciplina di cui alla norma speciale posta dall’art. 17, comma 1°, lett. c), legge n. 765/ 1967, ritenedo che la disciplina codicistica della prevenzione debba comunque trovare sempre espressione quando nella norma speciale, non sia dato rinvenire alcun indice, esplicito o implicito, di incompatibilità (cfr. Casss., n. 2657/1988; Cass., n. 5472/1991; Cass., n. 6101/1993; Cass., n. 3257/ 1995; Cass., n. 1201/ 1996; Cass., n- 784/1998); un secondo orientamento, che all’interrogativo da risposta negativa, secondo cui l’indice di specialità che rende incompatibile il principio della prevenzione con l’art. 17, comma 1°, lett. c), della legge ponte è rinvenibile nel criterio con cui l’art. 17 fissa la distanza in assoluto tra gli edifici (la proporzione fra le altezze degli edifici), criterio che è del tutto estraneo all’art. 873 cod. civ. (che si fonda, invece, sul nudo criterio della distanza fra i fabbricati), oppure nell’implicita prescrizione di una tassativa distanza di confine, pari alla metà di quella complessiva da osservarsi fra i fabbricati (cfr. Cass., n. 1973/ 1988; Cass., n. 8440/1990; Cass., n. 9041/1992; Cass., 6360/1993; Cass., n. 8573/1994; Cass., n. 716/1998). Queste Sezioni Unite ritengono che la disciplina positiva dettata dalla norma speciale di cui all’art, 17, comma 1°, lett. c), legge ponte e la necessità di ricordarla con la disciplina codicistica in tema di distanze tra fabbricati impongano di preferire il primo orientamento. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili - Sentenza 1 agosto 2002 sentenza, n. 11489  (vedi: sentenza per esteso)

Limitazioni legali della proprietà - rapporti di vicinato - distanze legali nelle costruzioni - criterio della prevenzione (costruzione sul confine o con distacco) - comunione forzosa del muro allo scopo di costruirvi contro - apertura da parte del preveniente di vedute "iure proprietatis" sul lato della costruzione fronteggiante - rilevanza - esclusione. In tema di distanze tra fabbricati, l'esercizio della facoltà del prevenuto di chiedere, ai sensi dell'art. 875 cod. civ., la comunione forzosa del muro del preveniente, non situato sul confine, allo scopo di fabbricare contro il muro stesso, non è impedito dal fatto che sul muro che si vuole rendere comune risultino aperte vedute "iure proprietatis". Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili - Sentenza 1 agosto 2002 sentenza, n. 11489  (vedi: sentenza per esteso)

Distanze legali nelle costruzioni - limitazioni legali della proprietà - rapporti di vicinato - art. 17 legge "ponte" n. 765 del 1967 - applicabilità - condizioni. In tema di distanze legali, perchè possa escludersi l'applicabilità della disciplina dettata in tema di distanze tra edifici dall'art. 41-quinquies, primo comma, lettera c), della legge 17 agosto 1942, n. 1150, aggiunto dall'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, è necessario che lo strumento edilizio locale provveda direttamente sulle distanze. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili - Sentenza 1 agosto 2002 sentenza, n. 11489  (vedi: sentenza per esteso)

L’applicabilità del principio di prevenzione nelle distanze legali del nuovo edificio. Com’è stato correttamente rimarcato in dottrina, quel che più rileva è che la distanza tra gli edifici non è prevista dalla norma come fissa, essendo, invece, mobile e variabile con riferimento all’altezza dell’edificio successivo; il che, da un canto, conferma che il confine tra i due fondi non assume alcun rilievo nella struttura della norma, dall’altro evidenzia, come dato imprescindibile, che la norma, così com’è strutturata, presuppone la preesistenza o di un fabbricato, solo rispetto al quale, non già rispetto al confine (o anche rispetto al confine), viene prescritta la distanza minima, da determinarsi in relazione all’altezza del nuovo edificio. Ciò, in sostanza, significa che la norma presuppone l’applicabilità del principio di prevenzione, dal momento che, come si diceva, che costruisce per primo non deve rispettare altro limite che non sia quello dell’altezza, commisurata alla larghezza dello spazio, pubblico o privato, eventualmente antistante al suo edificio, potendo, quindi, scegliere di costruire anche sul confine. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili - Sentenza 1 agosto 2002 sentenza, n. 11489 (vedi: sentenza per esteso)

Proroghe e differimento di termini degli effetti del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità). Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità), all’art. 58, numero 50, ha disposto l’abrogazione (non retroattiva) del denunciato d.l.lgt. n. 219 del 1919. Tuttavia detta disposizione non ha prodotto, né può produrre ancora, effetti, in quanto, in data anteriore a quella della originaria entrata in vigore, fissata al 1° gennaio 2002 (art. 59 t.u.), è sopravvenuto l'art. 5 del d.l. n. 411 del 2001 (Proroghe e differimento di termini), convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 31 dicembre 2001, n. 463, che ha operato un ulteriore differimento di sei mesi, a sua volta prorogato al gennaio 2003 con l'art. 3 del d.l. 20 giugno 2002, n. 122. Corte Costituzionale Sentenza del 25 luglio 2002, n. 393.  (vedi: sentenza per esteso)

Il dirigente (in servizio) dell’ufficio, investito, in sede amministrativa, di compiti di valutazione del bene espropriando, con competenza a determinare in sede contenziosa l’indennità di espropriazione, risulta in contrasto con i requisiti di imparzialità ed indipendenza. La previsione che il dirigente (in servizio) dell’ufficio, investito, in sede amministrativa, di compiti di valutazione del bene espropriando, faccia parte del collegio con funzioni giurisdizionali, con competenza a determinare in sede contenziosa l’indennità di espropriazione, risulta chiaramente in contrasto con i requisiti di imparzialità ed indipendenza che ciascun componente di un organo giurisdizionale deve possedere (v. sentenza n. 33 del 1968).Come posto in rilievo dal giudice a quo, l’Ufficio tecnico erariale partecipa al procedimento amministrativo di stima dei beni immobili soggetti ad espropriazione, esprimendo una valutazione, normalmente posta a base della indennità offerta dall’amministrazione, la quale a sua volta costituisce l’oggetto del giudizio che deve essere emesso in sede giurisdizionale dalla Giunta speciale. Ed appunto, in tutti i casi di specie, la Corte rimettente ha sottolineato che la Giunta speciale aveva operato un diretto riferimento alle valutazioni dell’UTE, essendo chiamata a decidere anche sul merito delle valutazioni e quindi ad esprimersi sulla loro congruità o meno. Corte Costituzionale Sentenza del 25 luglio 2002, n. 393. (vedi: sentenza per esteso)

Ogni Amministrazione pubblica, di qualsiasi grado e livello, è vincolata al rispetto della legge ai fini dell’individuazione delle modalità di affidamento di incarichi di progettazione. Il Comune di Teverola era in effetti vincolato, come ogni Amministrazione pubblica, di qualsiasi grado e livello, al rispetto della legge ai fini dell’individuazione delle modalità di affidamento di incarichi di progettazione, sia sopra che sotto la soglia comunitaria. La circostanza che in tempo remoto sia stato attribuito l’incarico della generale progettazione di tutta l’opera non comporta il diritto all’affidamento diretto, a distanza di tempo, delle progettazioni esecutive di singoli lotti. Consiglio Stato, sez. V, 16 luglio 2002, n. 3963.

Il regime delle distanze nelle costruzioni - distanza fra fabbricati e distanza di questi dal confine. Nella controversia tra privati vengono in rilievo solamente le norme edilizie comunali che prescrivono l’osservanza di un determinato distacco delle costruzioni su fondi finitimi calcolato rispetto al confine anziché tra le costruzioni stesse, norme dettate a tutela dei reciproci diritti soggettivi dei singoli e, quindi, derogabili mediante convenzioni fra privati (che concretano veri e propri atti costitutivi di servitù: cfr. Cass. civ., 16 dicembre 1980, n.6512; Cass. civ., 30 marzo 1983, n.2331). Nella specie, invece, si tratta dell’impugnazione di un provvedimento dell’autorità amministrativa (concessione edilizia) che ha autorizzato una costruzione in deroga alle norme di cui al D.M. 2 aprile 1968, n.1444, aventi carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica, norme che si riferiscono alla distanza fra fabbricati e non alla distanza di questi dal confine (cfr. Cass. civ., II, 16 febbraio 1996, n.1201). Il D.M. 2 aprile 1968 cit., infatti, emanato in forza dell’art.17 della <<legge ponte>> trae da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. Cass. civ., SS.UU., 21 febbraio 1994, n.1645), essendo consentita alla P.A. solo la fissazione di distanze superiori (cfr. Cons. St., IV, 13 maggio 1992, n.511; Cass. civ., 29 ottobre 1994, n.8944; id., 21 febbraio 1994, n.1645; id. 4 febbraio 1998, n.1132); non può, pertanto, escludersi la legittimazione e l’interesse del privato confinante ad impugnare le norme dello strumento urbanistico comunale ed i conseguenti atti applicativi nel momento in cui in base ad essi sia prevista a favore del vicino costruttore una consistente deroga alla rigida osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n.1444/68 cit., nella specie attuata, come dedotto dagli appellati, tramite la demolizione di un edificio preesistente - una villetta - e la ricostruzione al suo posto di un fabbricato di sei piani fuoriterra ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti; la deroga, infatti, viene ritenuta ammissibile unicamente nei casi di demolizione e ricostruzione in forma fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), non potendosi ritenere sussistente in tal caso una nuova costruzione, ma solo il suo recupero, con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria (cfr. Cass. civ., 25 agosto 1989, n.3762). Consiglio Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, nn. 3929-3930-3931. (vedi: sentenza per esteso)

Il diritto di accesso alle informazioni in materia ambientale - la legittimazione soggettiva del richiedente - non è necessario l’indicazione dello specifico interesse dell’associazione il D.lgs. 39/97 attribuisce “a chiunque”, senza limitazioni di ordine soggettivo l’accesso - l’indagine ermeneutica. E’ applicabile alla fattispecie (Il primo giudice ha accolto il ricorso presentato dal WWF, associazione italiana per il world wide fund for nature, per l’accesso ai documenti riguardanti una serie di concessioni edilizie, ancorché le singole istanze non contenessero l’indicazione dello specifico interesse dell’associazione, ritenendo che tale elemento fosse ininfluente in quanto gli atti amministrativi concernenti l'esecuzione di opere pubbliche e private, incidendo sull'assetto del territorio, rientrerebbero tra gli oggetti del diritto di accesso alle informazioni in materia ambientale, che il D.lgs. 39/97 attribuisce “a chiunque”, senza limitazioni di ordine soggettivo). una disciplina, quella contenuta nel D.lgs. 24 febbraio 1997, n. 39, che si discosta da quella generale contenuta nel capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241, soprattutto per quel che concerne la legittimazione soggettiva del richiedente, stabilendo che “le autorità pubbliche sono tenute a rendere disponibili le informazioni relative all’ambiente a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse” (articolo 3 D.lgs. 39/97). A tale riguardo, l’indagine ermeneutica è agevolata dall’articolo 2 del D.lgs. 39/97, secondo il quale “si intende per «informazioni relative all'ambiente», qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora o contenuta nelle basi di dati riguardante lo stato delle acque, dell'aria, del suolo, della fauna, della flora, del territorio e degli spazi naturali, nonché le attività, comprese quelle nocive, o le misure che incidono o possono incidere negativamente sulle predette componenti ambientali e le attività o le misure destinate a tutelarle, ivi compresi le misure amministrative e i programmi di gestione dell'ambiente. TAR della Liguria, sezione prima, 12 luglio 2002 n. 836

Il regime delle distanze nelle costruzioni nell’approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti. Il D.M. n.1444/68, emanato in base all’art.41-quinquies L. 17 agosto 1942, n.1150, nel testo modificato dall’art.17 L. 6 agosto 1967, n.765, con lo stabilire, all’art.9, comma 1 n.2), il distacco di m.10 tra fabbricati con pareti finestrate, vincola non solo i Comuni, tenuti ad adeguarsi a tale norma nell’approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma è immediatamente operante nei confronti dei proprietari frontisti (cfr. Cass. civ., 13 aprile 1999, n.3624; Cass. civ., 11 giugno 1994, n.5702). Consiglio Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, nn. 3929-3930-3931. (vedi: sentenza per esteso)

Strumenti urbanistici - le costruzioni debbono osservare una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti - altezza - tutela dell’igiene pubblica - decoro urbanistico. Infine, occorre dire che, se è vero che l’applicazione dell’art.17 della legge n.765 del 1967 e della disposizione del D.M. n.1444 del 1968, secondo cui le costruzioni debbono osservare una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, sono subordinate all’inesistenza di strumenti urbanistici anteriori contenenti norme sulle distanze (cfr. Cass. civ., SS.UU., 22 novembre 1994, n.9871), tuttavia gli strumenti urbanistici (e le relative revisioni) approvati successivamente all’entrata in vigore del citato decreto non possono contrastare con le direttive del decreto stesso (cfr. Cass. civ., II, 24 luglio 2001, n.10062). Quanto sopra detto in ordine alle distanze tra costruzioni vale, analogamente, anche per le altezze. E, infatti, scopo delle norme regolamentari concernenti l’altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell’igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell’indirizzo urbanistico dell’abitato (cfr. Cons. St., V, 20 ottobre 1962, n.767). Consiglio Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, nn. 3929-3930-3931. (vedi: sentenza per esteso)

La legittimazione del terzo al ricorso contro il titolo edilizio - stabile collegamento con zona interessata dall’attività edilizia. La legittimazione del terzo al ricorso contro il titolo edilizio, che si assume illegittimo, è data dallo stabile collegamento tra lo stesso terzo ricorrente e la zona interessata dall’attività edilizia assentita con la concessione di costruzione impugnata. Consiglio Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, n. 3931. (vedi: sentenza per esteso)

L'attribuzione della giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo - l’esercizio della facoltà di edificare - la richiesta di concessione edilizia, avanzata sul presupposto dell'avvenuta decadenza del vincolo di inedificabilità della zona per scadenza del quinquennio. L'attribuzione della giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo, come nel caso in esame per la materia di rilascio o diniego delle concessioni edilizie (art. 16 L. n.10/1977) o per tutti i provvedimenti, atti e comportamenti delle pubbliche amministrazioni e soggetti equiparati in materia urbanistica ed edilizia (art. 34 D.L.vo 31.3.1998 n.80, come sostituito dall'art. 7 L.21.7.2000 n.205), comporta che questo Collegio non deve effettuare alcuna specifica indagine per accertare se la controversia rientra nella sua giurisdizione oppure in quella di altro giudice (ad es. quello ordinario), ma comunque la natura giuridica della posizione soggettiva fatta valere (diritto soggettivo o interesse legittimo) rileva ad altri fini ( ad es., termine per ricorrere, censure proponibili, poteri istruttori e di decisione del giudice). In particolare, è pacifico che il rilascio o meno di una concessione edilizia comporta poteri autoritativi dell'Amministrazione e di conseguenza la posizione soggettiva del richiedente è di interesse legittimo (V. Cass. S.u. n.4903 del 2.6.1997), in quanto volta a trasformare detta posizione strumentale in posizione finale, mediante l’esercizio della facoltà di edificare. Ragione per cui il relativo giudizio attiene alla legittimità dell'azione amministrativa e rientra quindi nel processo impugnatorio di legittimità, nel quale le ragioni poste a fondamento del provvedimento adottato dall'Amministrazione non possono essere sostituite dal giudice amministrativo con altre argomentazioni che non si rinvengono affatto nel provvedimento finale e negli atti del relativo procedimento (V. la decisione di questa Sezione, n.790 del 15.2.2001). Ne consegue che, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, la legittimità dell'impugnato provvedimento di diniego deve essere valutata esclusivamente sulla base della motivazione addotta, che non fa alcun specifico riferimento alla normativa regionale, salvo il potere del Comune, in caso di accoglimento dell'impugnativa, di reiterare il diniego sulla base di una diversa e corretta motivazione.(Nella specie la richiesta di concessione edilizia, avanzata sul presupposto dell'avvenuta decadenza del vincolo di inedificabilità della zona per scadenza del quinquennio e conseguente applicabilità dell'art. 4, ultimo comma, lett. c, della l. 28.1.1977 n.10, riguardava la realizzazione di un capannone industriale di mq. 985 in un'area di circa mq.10.290, sita nel comune di Senago, fuori dal perimetro del centro edificato. Il provvedimento di diniego è motivato con la considerazione che "l'art. 4 L.n.10/1977 ammette in assenza di strumenti urbanistici generali e nel caso quindi di strumenti urbanistici generali scaduti, fuori del perimetro dei centri abitati, l'edificazione a scopo solamente residenziale con un indice di mc. 0,03 per mq. di area edificabile. Quanto richiesto è quindi è in contrasto con i disposti di legge sia per la volumetria richiesta che per l'uso previsto"). Consiglio di Stato Sezione V, 11 luglio 2002, n. 3884.

La concessione dell’equo indennizzo - motivazione. In sede di procedimento per la concessione dell’equo indennizzo l’Amministrazione della difesa, che abbia deciso di acquisire il parere del Collegio medico legale di cui all’art. 178 del T.U. 29.12.1973, n. 1092, qualora ritenga di far proprie le conclusioni del parere stesso – conforme a quello dato dal Comitato per le pensioni privilegiate ordinarie – non è tenuta a motivare le ragioni per le quali non condivide l’avviso difforme della Commissione medica ospedaliera, atteso che la sua confutazione è nello stesso parere di quel Collegio, richiesto, appunto, per superare le perplessità derivanti, fra l’altro, da giudizi contrastanti (C.d.S., IV, 23.10.1991, n. 850). Consiglio di Stato Sezione IV, 11 luglio 2002, n. 3880.

La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto - la nozione di urbanistica - per l’occupazione di aree sine titulo va confermata la giurisdizione del giudice ordinario. L’art. 34 del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80, nel testo originario, comunque poi confermato dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, intervenuta a colmare la lacuna determinatasi per effetto della nota sentenza n. 292 del 2000 della Corte costituzionale, devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia. L’art. 35 stabilisce che il giudice amministrativo, nelle controversie rimesse alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto. Queste disposizioni trovano entrambe applicazione al caso di specie. La materia urbanistica comprende, ai sensi dell’art. 34, comma 2, “tutti gli aspetti dell’uso del territorio” e la giurisdizione del giudice amministrativo abbraccia, oltre alla cognizione degli atti e provvedimenti, anche i comportamenti delle amministrazioni pubbliche. L’ultimo comma dell’art. 34 prevede, altresì, che nulla è innovato “in ordine alla giurisdizione del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa”. Da queste disposizioni si evince che la giurisdizione esclusiva non si arresta al giudizio di annullamento del provvedimento amministrativo e che si estende al sindacato sul rapporto tra privato ed amministrazione nella sua portata più ampia, comprensivo anche dei comportamenti materiali. Perlomeno di quei comportamenti materiali che danno esecuzione o sono altrimenti collegati con il provvedimento. E’ una logica ispirata al riparto della giurisdizione mediante individuazione di blocchi di materie, già osservata nel settore del pubblico impiego privatizzato e proseguita con l’assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione su pubblici servizi, urbanistica ed edilizia. La nozione di urbanistica che ritaglia tale giurisdizione esclusiva è ampia al punto da assorbire tutti gli aspetti dell’uso del territorio. Essa si estende ai procedimenti di esproprio, comprensivi sia della dichiarazione di pubblica utilità, sia degli atti di occupazione d’urgenza e relativi comportamenti esecutivi, come confermato da due argomenti entrambi decisivi, l’uno di carattere letterale e l’altro teleologico. In conclusione, va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo per le domande di risarcimento del danno di cui alle precedenti lettere a) e c), per le quali la causa va rimessa al giudice di primo grado, mentre per l’occupazione di aree sine titulo (lett. b) va confermata la giurisdizione del giudice ordinario. Consiglio Stato, sez. IV, 9 luglio 2002, n. 3819. (vedi sentenza per esteso)

In difetto di una valida e perdurante dichiarazione di pubblica utilità dell’opera in ragione della quale è stata disposta l’espropriazione di un fondo non si realizza il fenomeno della c.d. accessione invertita, ma soltanto un fatto illecito, generatore di danno. Esiste un rapporto di necessaria implicazione tra una efficace dichiarazione di pubblica utilità e la configurabilità di un’opera pubblica: non può aversi quest’ultima se manca la prima (IV, 9 aprile 1999, n. 606). Pertanto, in difetto di una valida e perdurante dichiarazione di pubblica utilità dell’opera in ragione della quale è stata disposta l’espropriazione di un fondo non si realizza il fenomeno della c.d. accessione invertita, ma soltanto un fatto illecito, generatore di danno (IV, 2 giugno 2000, n. 3177). In tale ultima ipotesi la controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario. Consiglio Stato, sez. IV, 9 luglio 2002, n. 3819. (vedi sentenza per esteso)

Definizione degli interventi di restauro e risanamento conservativo - significato proprio dei termini “recupero” e “risanamento”. Secondo la definizione che ne dà la lettera c) dell’art. 31 della L. 5 agosto 1978 n. 457, gli interventi di restauro e risanamento conservativo sono “quelli rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili”. Nel caso in esame, le opere edilizie di cui si tratta consistono, tra l’altro, anche nella demolizione e ricostruzione di muri portanti e nella realizzazione, nella maggior parte dei locali, del cosiddetto pavimento galleggiante per il passaggio di cavi e tubazioni. L’intervento eseguito, pertanto, in primo luogo, non era diretto - come vuole la definizione dettata dalla norma e lo stesso significato proprio dei termini “recupero” e “risanamento” - a conservare l’organismo edilizio, attraverso il consolidamento, il ripristino o il rinnovo di suoi elementi costitutivi, ed a restituirgli una funzionalità non più esistente o compromessa. Esso aveva lo scopo di trasformare l’immobile al solo fine di adattarlo alla progettata diversa destinazione d’uso. Consiglio di Stato Sezione V, 6 luglio 2002 n. 3728 (vedi: sentenza per esteso)

Il mutamento di destinazione - le fattispecie normative del restauro-risanamento conservativo e della ristrutturazione - la nuova destinazione d’uso - standards urbanistici. Il mutamento di destinazione, che in linea di principio è consentito in entrambe le fattispecie normative del restauro-risanamento conservativo e della ristrutturazione, nella prima ipotesi soffre la limitazione, imposta dalla norma, della compatibilità con gli elementi tipologici, formali e strutturali del fabbricato. Nel caso in specie, (si è provveduto ad adattare due piani di un edificio ricadente in centro storico (zona A1)) la nuova destinazione ad uffici tecnologicamente attrezzati non appare compatibile, quanto meno, con la tipologia dell’edificio, costruito per essere adibito alla residenza; se non con elementi formali della costruzione, come le altezze dei singoli vani. Nella residua ipotesi di ristrutturazione, infatti, la nuova destinazione d’uso è svincolata dal limite di compatibilità sopra evidenziato e, pertanto, sia pure nell’ambito della destinazione di zona, ben potrebbe incidere sugli standards urbanistici. Di qui la necessità del piano attuativo, nella stesura del quale la verificazione degli standards costituisce momento ineliminabile. Consiglio di Stato Sezione V, 6 luglio 2002 n. 3728 (vedi: sentenza per esteso)

Controversie giurisdizionali sull’indennità di espropriazione - ipotesi in cui manchi la determinazione dell’indennità - vizio di legittimità del decreto di espropriazione - giurisdizione del giudice amministrativo - ipotesi in cui manchi la congruità della misura - integra la violazione di un diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario. In tema di controversie sull’indennità di espropriazione, occorre distinguere l’ipotesi in cui manchi la determinazione dell’indennità da quella in cui detta determinazione vi sia e si faccia unicamente questione della congruità della misura; infatti, mentre la prima ipotesi è qualificabile come vizio di legittimità del decreto di espropriazione, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, la seconda integra la violazione di un diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario (Cons. Stato, sez. IV, 13 febbraio 1988, n. 53 e 1° aprile 1980, n. 319). Consiglio di Stato Sezione IV, sentenza 2 luglio 2002, n. 3606.

Controversie sull’indennità di espropriazione - ipotesi in cui manchi la determinazione dell’indennità - vizio di legittimità del decreto di espropriazione - giurisdizione del giudice amministrativo - ipotesi in cui manchi la congruità della misura - integra la violazione di un diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario - la statuizione sulla giurisdizione da parte del giudice di primo grado. Il fatto che il giudice di primo grado si sia pronunciato con una espressa statuizione sulla giurisdizione non assume rilevanza, poichè si deve escludere, fino a quando il rapporto processuale resti pendente e semprechè sulla giurisdizione non sia intervenuta una decisione della Corte di cassazione, che tale statuizione sia passibile di passare in giudicato, non essendo preclusiva della declaratoria in sede di appello una pronuncia espressa del giudice di merito non specificamente impugnata dalla parte soccombente (Cons. Stato, sez. IV,1° dicembre 1999, n. 2052 e 4 febbraio 1999, n. 112; sez. VI, 25 marzo 1998, n. 390). In tema di controversie sull’indennità di espropriazione, occorre distinguere l’ipotesi in cui manchi la determinazione dell’indennità da quella in cui detta determinazione vi sia e si faccia unicamente questione della congruità della misura; infatti, mentre la prima ipotesi è qualificabile come vizio di legittimità del decreto di espropriazione, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, la seconda integra la violazione di un diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario (Cons. Stato, sez. IV, 13 febbraio 1988, n. 53 e 1° aprile 1980, n. 319). Nella specie si verte in quest’ultima ipotesi, in quanto il Comune ha determinato l’indennità in questione fissandola , secondo nuovi calcoli, in misura inferiore a quella precedentemente stabilita . Si deve, quindi, affermare che la questione rientra nella giurisdizionale del giudice ordinario, competente a conoscere non solo le controversie in materia di determinazione della medesima indennità , ma anche quelle relative ai criteri di liquidazione ed agli aspetti dell’iter procedurale seguito, ivi comprese quelle inerenti all’individuazione delle norme, dei sistemi e dei criteri applicabili per la determinazione dell’indennità (Cons. Stato, sez. IV, 15 aprile 1999, n. 644 ; 11 febbraio 1992, n. 192; 7 aprile 1990, n. 255). Pertanto, la suddetta sentenza, nella parte in cui, in accoglimento dell’impugnativa degli interessati, ha annullato il menzionato decreto del direttore regionale ai lavori pubblici di rideterminazione dell’indennità di esproprio e di autorizzazione all’occupazione in via definitiva i terreni dei ricorrenti, deve essere riformata e, per l’effetto, deve essere dichiarato inammissibile il relativo ricorso di primo grado. Alla stregua delle considerazioni esposte, si deve pervenire alle medesime conclusioni in ordine all’appello incidentale con cui gli appellati deducono la mancata indicazione delle ragioni di interesse pubblico che hanno indotto l’Amministrazione ad assumere la determinazione contestata e l’ erroneo riferimento al momento di determinazione dell’indennità . Ugualmente è a dirsi per la dedotta violazione dei termini di cui all’art. 17 della l. reg. 13 aprile 1978, n. 24; la censura si rivela sfornita di alcun nesso con il provvedimento di determinazione dell’indennità di esproprio e perciò andava eventualmente proposta contro il primo atto della procedura. Consiglio di Stato Sezione IV, sentenza 2 luglio 2002, n. 3606.

La dichiarazione di pubblica utilità - procedimento espropriativi. La dichiarazione di pubblica utilità costituisce la base comune su cui poggiano sia il procedimento espropriativo comma 9 dell'art. 9 del D.P.R. 18 marzo 1965 n. 342 - a tenore del quale "i decreti di autorizzazione in via provvisoria di cui all'art. 113 del T.U. 11 dicembre 1933 n. 1775, hanno anche essi efficacia di dichiarazione di indifferibilità ed urgenza" - deve essere interpretato sistematicamente in relazione sia ai principi giuridici di ordine generale sopra enunciati, sia al contenuto del comma 8 dello stesso art. 9 D.P.R. n. 362 del 1965 in base al quale "i decreti di autorizzazione degli elettrodotti da costruirsi da parte dell'Ente Nazionale per l'Energia Elettrica hanno efficacia di dichiarazione di pubblica utilità nonché di indifferibilità ed urgenza delle opere relative agli elettrodotti medesimi, ai sensi e per gli effetti dell'art. 71 della L. 25 giugno 1865, n. 2359 e successive modificazioni". TAR Campania-Napoli, Sez. V - Sentenza 11 giugno 2002 n. 3386   (vedi: sentenza per esteso)

La comunicazione di avvio del procedimento amministrativo è necessaria in relazione al procedimento che si conclude con la dichiarazione di pubblica utilità - i termini. Sono ormai pacificamente riconosciuti in giurisprudenza i seguenti pricipi: a) la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo di cui all'art. 7 della l. n. 241/90 è necessaria in relazione al procedimento che si conclude con la dichiarazione di pubblica utilità, anche implicita, non essendo a tal fine sufficiente una partecipazione differita (C.S. ad. plen. 15 settembre 1999, n. 14; IV, 28 gennaio 2000, n. 413); b) i termini di cui all'art. 13 della L. 25 giugno 1865 n. 2359 devono essere stabiliti nell'atto comportante la dichiarazione di pubblica utilità (Cons. Stato a.plen. 26 agosto 1991 n. 6, T.A.R. Marche 23 settembre 1997, n. 813). TAR Campania-Napoli, Sez. V  dell' 11 giugno 2002 Sentenza n. 3386  (vedi: sentenza per esteso)

Il decreto di occupazione è atto vincolato - obbligo delle garanzie procedimentali nell'ambito delle procedure espropriative relative alla costruzione di linee elettriche - la dichiarazione di pubblica utilità, espressa o implicita è necessaria - la dichiarazione di indifferibilità ed urgenza deve contenere anche i termini. Con la sentenza 30 maggio 2001, n. 2444, questa Sezione si è espressa sulla questione relativa alle garanzie procedimentali nell'ambito delle procedure espropriative relative alla costruzione di linee elettriche, aderendo all'innovativa impostazione adottata dalla IV Sezione del Consiglio di Stato nella decisione 9 aprile 1999, n. 606. Infatti una dichiarazione di pubblica utilità, espressa o implicita, deve necessariamente sussistere, e preesistere, perché possa aversi, in senso giuridico, un'opera pubblica; e d'altra parte il decreto di occupazione è atto vincolato, strettamente consequenziale rispetto alla dichiarazione di indifferibilità ed urgenza (Ad. plen. 18 giugno 1986 n. 6). I termini di cui all'art. 13 della L. 25 giugno 1865 n. 2359 devono essere stabiliti nell'atto comportante la dichiarazione di pubblica utilità pena l'illegittimità dello stesso. (Cons. Stato a.plen. 26 agosto 1991 n. 6, T.A.R. Marche 23 settembre 1997, n. 813). TAR Campania-Napoli, Sez. V  dell' 11 giugno 2002 Sentenza n. 3386 (vedi: sentenza per esteso)

Occupazione temporanea d'urgenza - dichiarazione anticipata di indifferibilità ed urgenza dei lavori - la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera. Non può aversi una "dichiarazione anticipata di indifferibilità ed urgenza dei lavori", finalizzata all'occupazione temporanea d'urgenza, prima che sia stata emessa, esplicitamente o per implicito, la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera. TAR Campania-Napoli, Sez. V - Sentenza 11 giugno 2002 n. 3386   (vedi: sentenza per esteso)

Il limite fissato dall’art. 2933 c.c. - pregiudizio per l'economia nazionale. Quanto attiene al limite fissato dall’art. 2933 c.c., per il caso in cui la distruzione della cosa risulti di pregiudizio per l'economia nazionale, va ricordato che trattasi di norma la cui applicazione presuppone che il concreto verificarsi di tale pregiudizio venga dedotto e dimostrato (Cass. Civ. sez. un., 16 gennaio 1986 n. 207). TAR Campania-Napoli, Sez. V Sentenza 11 giugno 2002 n. 3386  (vedi: sentenza per esteso)

La richiesta di restituzione dell'area - sentenza di annullamento - giudizio di ottemperanza - l'avvenuta esecuzione dell'opera. L'avvenuta fissazione dei termini de quibus con successiva delibera (costruzione di elettrodotti, con autorizzazione provvisoria) risulta infatti parimenti censurabile: non è ipotizzabile al riguardo una sanatoria con efficacia "ex tunc" mediante convalida, né "ex nunc" mediante integrazione postuma dell'atto incompleto, non essendo consentito all'autorità amministrativa, da un lato, imporre retroattivamente limiti all'esercizio di diritti soggettivi prima illegittimamente compressi, dall'altro, eludere la garanzia che la legge predispone a favore degli espropriandi (Cons. Stato a.plen. 26 agosto 1991 n. 6; IV, 27 novembre 1997, n. 1326; V, 30 settembre 1998, n. 1360). In particolare, va osservato che la richiesta di restituzione dell'area va considerata alla luce degli effetti ripristinatori della sentenza di annullamento (per questo si riconosce, in linea di principio, che nell'ambito dei poteri riconosciuti al giudice amministrativo all'interno del giudizio di ottemperanza, rientra la possibilità, una volta accertata la non esecuzione del giudicato da parte della p.a., di disporre la restituzione dell'area: C. S. VI, 16 settembre 1993, n. 623; IV, 5 ottobre 1995, n. 785). E del resto l'avvenuta esecuzione dell'opera ha comportato, da parte del ricorrente, l'esigenza di specificare il petitum: al riguardo è significativo, a titolo di esempio, l'orientamento della giurisprudenza civile secondo cui, ingiunto dall'amministrazione il pagamento di una sanzione pecuniaria amministrativa in forza di titolo munito di efficacia esecutiva, non costituisce domanda nuova la pretesa del privato ad ottenere, nel corso del procedimento promosso per l'accertamento negativo di tale pretesa creditoria, la restituzione delle somme versate in forza dell'esecutività del titolo (Cassazione civile, sez. I, 5 febbraio 1987 n. 1124). TAR Campania-Napoli, Sez. V  dell' 11 giugno 2002 Sentenza n. 3386 (vedi: sentenza per esteso)

La innovativa definizione di ristrutturazione edilizia in base all’art. 3 del DPR 380/01 - interventi di ristrutturazione edilizia - i casi di demolizione e fedele ricostruzione di un edificio - limitatamente agli edifici compresi nelle zone omogenee. A per la ristrutturazione basta una semplice denunzia di inizio attività che, se mancante, non comporta l’applicazione di sanzioni penali ma solo amministrative. L’art. 3 del DPR 380/01 innova proprio in relazione alla definizione di ristrutturazione edilizia quale attività considerata in giurisprudenza come differente da quella di demolizione e ricostruzione ex novo. Ed invero, l’art. 3 lett. d) statuisce che tra gli «interventi di ristrutturazione edilizia» vi sono anche quelli «consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica». In sostanza, con tale norma viene «vulnerata» la precedente definizione giurisprudenziale di ristrutturazione edilizia, che deve, per questa nuova legge, ricomprendere anche i casi di demolizione e fedele ricostruzione di un edificio avente le caratteristiche sopra debitamente indicate; Ma vi è di più: dalla lettura del combinato disposto degli artt. 3 comma 1 lett. d), 10 comma 1 lett. c) e 22 comma I del citato testo unico, emerge in modo palese che proprio i casi di ristrutturazione edilizia che non comportino aumenti di unità immobiliari, modifiche del volume, sagoma, prospetti o superfici e - limitatamente agli edifici compresi nelle zone omogenee A - che non comportino mutamenti della destinazione d’uso, non sono più sottoposti a preventiva concessione edilizia o permesso di costruire ma a semplice denunzia di inizio attività che, se mancante, non comporta l’applicazione di sanzioni penali ma solo amministrative (cfr. art. 37 del DPR citato). Alla luce della mutata normativa di cui sopra, pertanto, l’intervento edilizio oggetto di causa, essendo consistito nella demolizione e fedele ricostruzione di un precedente manufatto (cosiddetto «intervento fotocopia»), senza aumento di unità immobiliari o modifiche della sagoma, prospetti, superfici, né comunque mutamento della destinazione d’uso, deve ritenersi - quantomeno per il tempo in cui è entrato in vigore il testo unico dell’edilizia di cui al DPR 380/01 – non soggetto a preventiva concessione edilizia ovvero permesso a costruire ma solo a denunzia di inizio attività la cui mancanza, comunque, non comporta l’applicazione di sanzioni penali in capo all’imputato. Quindi, poiché ex art. 2 c.p. si è verificata una «abolitio criminis» della condotta di cui sopra, l’imputato non può che essere mandato assolto dal reato di edificazione edilizia abusiva di cui all’art. 20 let. B) della legge 47/1985 perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, attesa la temporanea e parziale abrogazione della predetta norma limitatamente agli interventi edilizi sopra indicati. Prima dell’entrata in vigore del testo unico per giurisprudenza costante della Corte Suprema occorre la concessione anche nei casi in cui l’immobile ricostruito presenta le stesse caratteristiche tipologiche e planovolumetriche di quello preesistente (Cfr. Cassazione, sez. III 10/8/1993, in Giustizia Penale 1994, II, 298 e tante altre conformi). Infatti, non poteva qualificarsi come ricostruzione di un preesistente manufatto ma di «nuova costruzione». Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – sezione distaccata di Aversa - sentenza 22 aprile 2002 (vedi: sentenza per esteso)

Reati urbanistici o edilizi - costruzione edilizia abusiva - sentenza di condanna - attenuante del danno di particolare tenuita' - concedibilita' - esclusione - fondamento. Con la sentenza di condanna per reati urbanistici o edilizi non e' concedibile la attenuante del danno di particolare tenuita', ai sensi dell'art. 62 n. 4 cod. pen., atteso che detta attenuante e' applicabile solo ai delitti e non anche ai reati ambientali aventi natura contravvenzionale. Corte di Cassazione Sez. III del 15 aprile 2002, sentenza n. 14290

Inadempimento di uno Stato - Direttiva 85/384/CEE - Reciproco riconoscimento dei titoli del settore dell’architettura - Accesso alla professione di architetto - Art. 59 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 49 CE). La Corte (quinta sezione), ha pronunciato il 21 marzo 2002 una sentenza il cui dispositivo è del seguente tenore: La Repubblica italiana,  non avendo adottato tutti i provvedimenti necessari all’attuazione dell’art. 4, n. 1, secondo comma, e n. 2, e dell’art. 11, lett. k), settimo trattino, nonché dell’art. 14 della direttiva del Consiglio 10 giugno 1985, 85/384/CEE, concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell’architettura e comportante misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, come modificata dalla direttiva del Consiglio 27 gennaio 1986, 86/17/CEE, che modifica, a seguito dell’adesione del Portogallo, la direttiva 85/384; non avendo adottato tutti i provvedimenti necessari per il riconoscimento automatico dei diplomi, certificati ed altri titoli, conformemente agli artt. 2, 3, 7, 8 e 9 della direttiva 85/384; avendo adottato l’art. 4, n. 2, lett. a), del decreto legislativo del Presidente della Repubblica 27 gennaio 1992, n. 129, che, in violazione degli artt. 52 e 59 del Trattato CE (divenuti, in seguito a modifica, artt. 43 CE e 49 CE), impone in modo generalizzato di corredare la domanda di riconoscimento di un titolo con il diploma in originale o in copia autenticata; avendo adottato l’art. 4, n. 2, lett. c), del decreto n. 129/92 e l’art. 4, n. 1, lett. c), del decreto del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica 10giugno 1994, n. 776, che, in violazione dell’art. 52 del Trattato, impongono in modo generalizzato di allegare alla domanda di riconoscimento di un titolo un certificato di cittadinanza; avendo adottato l’art. 4, n. 3, del decreto n. 129/92 e l’art. 10 del decreto n. 776/94 che, in violazione dell’art. 52 del Trattato, richiedono in tutti i casi la traduzione ufficiale della documentazione allegata ad una domanda di riconoscimento di un titolo; avendo adottato l’art. 11, n. 1, lett. c) e d), del decreto n. 129/92 che, in violazione dell’art. 12 della direttiva 85/384, prevede il riconoscimento dei titoli conseguiti dopo il 5 agosto 1987; mantenendo in vigore l’art. 9, n. 1 del decreto  n. 129/92 che, in violazione dell’art. 59 del Trattato, sancisce il divieto generalizzato per gli architetti stabiliti in un altro stato membro che intendano fornire servizi in Italia di costituire una sede principale o secondaria in territorio italiano; obbligando, in forza dell’art. 9, n. 3, del decreto n. 129/92 e degli artt. 7 e 8 del decreto n. 776/94, gli architetti stabiliti in altri Stati membri che intendono fornire servizi in Italia ad iscriversi presso il Consiglio provinciale territorialmente competente dell’Ordine degli architetti e, a causa di questa formalità, provocando, in violazione dell’art. 22 della direttiva 85/384, un ritardo nell’espletamento da parte degli architetti della loro prima prestazione di servizi in Italia, è venuta meno agli obblighi che incombono in forza degli artt. 12, 22, 27 e 31 della direttiva 85/384 e, per quanto attiene al divieto di cui all’art. 9, n. 1, del decreto n. 129/92, dell’art. 59 del Trattato. Corte di Giustizia Europea (Quinta Sezione) 21 marzo 2002-05-25, nella causa C-298/99 (2002/C 118/06) (GUCE C118/5 del 18.5.2002)

Responsabilità della P.A. qualora l'utente della strada subisca un danno per cattiva manutenzione -  l'obbligo della manutenzione e della custodia - omessa verifica e manutenzione delle strade poste all'interno dell'abitato - l'affidamento in appalto di lavori a terzi su strade demaniali non esime la PA. da responsabilità. La Cassazione ha sempre affermato che la PA non può essere ritenuta responsabile quale custode ex art. 2051 c.c. per i beni appartenenti al demanio stradale, in quanto su di essi viene esercitato un uso ordinario, generale e diretto da parte dei cittadini e l'estensione del bene stesso rende praticamente impossibile l'esercizio di un continuo ed efficace controllo che valga ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo per terzi. La responsabilità dell'amministrazione secondo tale indirizzo, potrebbe invece ravvisarsi in base all'art. 2043 c.c., qualora l'utente della strada subisca un danno per cattiva manutenzione della stessa e dimostri che l'evento dannoso è causalmente ricollegabile ad una insidia (o trabocchetto) , cioè ad una situazione di fatto che rappresentante un pericolo occulto. La Corte Costituzionale, con sentenza del 10.5.99 n. 156, ha ritenuto che non fosse fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2051 c.c. sotto il profilo della non applicabilità di detta norma alla P.A. per i beni demaniali soggetti ad un uso ordinano, generale e diretto da parte dei cittadini. In particolare la Corte ha ritenuto corretto l'orientamento della Cassazione secondo cui l'inapplicabilità dell'art. 2051 c.c. deriverebbe dal fatto che per determinati beni (quali il demanio stradale ) la P.A. non ha la possibilità di esercitare un controllo idoneo ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose per i consociati, precisando comunque che tale norma può trovare applicazione allorché un efficace controllo sia concretamente possibile, dovendo il Giudice accertare tale circostanza caso per caso, dato che la notevole estensione e l'uso diretto e generale da parte dei cittadini costituiscono meri indici dell'impossibilità di esercitare il potere di controllo, come ritenuto da alcune recenti sentenze della Cassazione. La Corte ha precisato. altresì che i privati non vantano un diritto soggettivo alla manutenzione delle strade e che sono gravati di un onere (secondo il principio di autoresponsabilità) di particolare attenzione nell'uso dei beni demaniali per salvaguardare la propria incolumità: in tale quadro la nozione di insidia verrebbe a configurarsi come una figura sintomatica di colpa, elaborata dalla giurisprudenza col fine di distribuire tra le parti l'onere della prova. Come rilevato anche dalla Corte Costituzionale, negli ultimi anni la Cassazione è giunta in talune sentenze a ritenere ammissibile l'applicabilità dell'art. 2051 c.c. alla P.A. anche con riferimento ai beni demaniali, nei casi in cui il luogo in cui il danno si era verificato fosse di un'estensione tale da rendere possibile un effettivo controllo da parte della stessa (si vedano in particolare le sentenze della Cassazione n. 156 del 1999 e n. 13114 del 1995 che prendono in considerazione quale bene demaniale la rete fognaria comunale) e ciò anche per quanto concerne il demanio stradale. In particolare la Cassazione ha ritenuto che dalla proprietà pubblica del Comune sulle strade poste all'interno dell'abitato discende per l'ente non solo l'obbligo della manutenzione, come stabilito dell'art. 5 r.d. 15.11.1923) n. 2506. ma anche quello della custodia, con conseguente operatività nei confronti dell'ente stesso, della presunzione di responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. (Cass. 20.11.1998 n. 11749, Cass. 5.9.1997 n. 8588, Cass. 21.5.96 n. 4673). Inoltre la Cassazione ha sancito l'operatività dell'art. 2051 c.c. nel confronti del Comune e in relazione alle strade poste all'interno dell'abitato, qualora lo stesso abbia omesso di vigilare al fine di impedire che terzi incaricati dell'esecuzione dei lavori sui beni oggetto della proprietà vi procedessero in guisa tale da recare danno ai fondi limitrofi (Cass. n. 4673 del 1996). (In particolare con la sentenza n. 2963 del 29.3.99 la Cassazione ha ritenuto che il Comune proprietario di una strada, sulla quale siano stati seguiti lavori affidati in appalto ad un'impresa privata, è responsabile per il fatto dannoso accaduto a colui che , transitando sull'arteria con un autocarro, sprofondi con l'automezzo in una buca non segnalata per il cedimento del terreno di riempimento). La Corte infatti ha considerato che il Comune, in quanto proprietario della strada, avrebbe dovuto attivarsi per eliminare ogni situazione di pericolo eventualmente determinata dallo svolgimento dei lavori. Infatti la responsabilità dell'ente proprietario della strada è configurabile ( a prescindere dalla responsabilità dell'appaltatore) anche quando i lavori siano dati in appalto e impone all'ente stesso di curare che l'uso si svolga senza pericolo, se del caso eliminando le situazioni contrarie alla sicurezza. Tali principi, secondo la Corte, sono a maggior ragione applicabili dove non ci siano cartelli o altre idonee segnalazioni idonee a richiamare l'attenzione del cittadino su possibili situazione pericolose. Tale sentenza è in linea con numerose altre della Cassazione le quali hanno escluso che l'affidamento in appalto di lavori a terzi su strade demaniali possa esimere la PA. da responsabilità (si veda per esempio la n. 4070 del 22.4.1998). In particolare si consideri quella n. 3771 del 16.4.1987, concernente una fattispecie in cui era stato eseguito uno scavo stradale per la posa in opera di. tubature: la Cassazione in questo caso ha richiamato espressamente l'obbligo dell'ente pubblico di verificare non solo la fase esecutiva dei lavori, ma anche il conveniente ripristino della situazione dei luoghi una volta terminati gli stessi. Né può dirsi che nel caso di specie l'art. 2051 c.c. non fosse applicabile data l'estensione del demanio stradale del Comune e l'uso generalizzato di tale bene, visto che l'ente era perfettamente a conoscenza che vi erano in corso lavori proprio su quella strada , per cui aveva la possibilità in concreto di esercitare sulla stessa un controllo adeguato al fine di impedire che si creassero situazioni di pericolo per gli utenti, vuoi per lo svolgimento dei lavori, vuoi per l’inadeguato ripristino una volta terminati gli stessi. Tale controllo era vieppiù dovuto considerato che nel pressi degli avvallamenti e delle buche non vi erano segnalazioni. Tribunale Civile di Monza - Sentenza 24 maggio 2001 n. 1356.

Competenze dei dirigenti - ordinanze in materia di circolazione stradale - adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno - D.Lgs 267/2000 - competenze del Sindaco - limiti. L'art. 107 del D. Lgs. 267/2000 attribuisce ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale. Pertanto il motivo di ricorso, con cui viene dedotta l'incompetenza del Sindaco ad adottare il provvedimento impugnato (nella specie ordinanze per regolamentare la circolazione e la sosta nel centro abitato per ragioni di sicurezza e di ordinato flusso del traffico) è fondato. T.A.R. Veneto - Sentenza del 22/05/2002, n. 2462

Ordinanze in materia di circolazione stradale - competenze dei dirigenti - D.Lgs. 285/1992 - D.Lgs 267/2000. Rientrano nelle competenze dei dirigenti anche i provvedimenti che gli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 285/1992 attribuiscono espressamente al sindaco, trattandosi di atti che per un verso non implicano l'esercizio di funzioni di indirizzo e controllo politico amministrativo ma di gestione ordinaria (nella specie per regolamentare la circolazione e la sosta nel centro abitato per ragioni di sicurezza e di ordinato flusso del traffico) e per altro verso non rientrano nelle deroghe di cui all'art. 50 e 54 dello stesso D.Lgs 267/2000. T.A.R. Veneto - Sentenza del 22/05/2002, n. 2462

Piano regolatore generale - destinazione di area a verde privato - concessione in sanatoria rilasciata per opera commerciale - concessione in sanatoria rilasciata in assenza di conformita' agli strumenti urbanistici generali - abuso di ufficio - sussistenza. In tema di abuso di ufficio, integra la violazione di legge, rilevante ai fini della configurabilita' del reato, il rilascio, da parte del Sindaco, di una concessione edilizia in sanatoria allorche' rimanga accertata l'assenza del requisito della conformita' dell'opera agli strumenti urbanistici generali (nella fattispecie, per contrasto con il Piano Regolatore Generale che escludeva l'edificazione di strutture commerciali nella zona, destinata a verde privato). Corte di Cassazione Sez. VI del 20 aprile 2001, sentenza n. 16241

Definizione del concetto di manutenzione straordinaria - casi di esonero dal pagamento degli oneri afferenti la rilasciata concessione. L’ultima categoria di opere edilizie ex art. 31, lett. b) della L. 5.8.1978, n. 457 ricomprende, nel concetto di manutenzione straordinaria, ogni innominata modifica necessaria per rinnovare o sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non risultino alterati i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non siano introdotte modifiche delle destinazioni in uso. Detta prescrizione normativa primaria è stata espressamente definita prevalente sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi, detto assunto è peraltro insufficiente a giustificare la richiesta di pagamento degli oneri afferenti la rilasciata concessione, posto che non consta alcuna modificazione del volume, delle superfici e delle destinazioni d’uso dell’edificio. T. A. R. Lombardia, sez. staccata di Brescia 18 luglio 2001, n. 606.

Edilizia - costruzione edilizia - pertinenza posta al servizio di un'opera principale abusiva - regime autorizzatorio - applicabilita' - esclusione - fondamento. In tema di costruzioni edilizie,non e' applicabile il regime autorizzatorio, disciplinato dall'art. 7, secondo comma, lett. a), del d.l. 23 gennaio 1982, n. 9, convertito nella legge 25 marzo 1982, n. 94, all' opera pertinenziale (nella specie una tettoia) che acceda ad un manufatto principale abusivo, che non sia stato sanato ne' condonato, in quanto il bene accessorio, che ripete le sue caratteristiche dall'opera principale a cui e' intimamente connesso, risulta anch'esso in contrasto con l'assetto urbanisticodel territorio. Corte di Cassazione Sez. III del 06/04/2001sent. 13997

Interventi di ristrutturazione - nozione - presupposto di fatto. La nozione di ristrutturazione edilizia, desumibile dall'art. 31, lett. d), legge n. 457 del 1978, postula la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un organismo dotato di murature perimetrali, strutture orizzontali e opertura; di conseguenza, l'attività' di ricostruzione su ruderi costituisce una nuova costruzione. Corte di Cassazione. Sez. III del 06/04/2001 sentenza n. 13982

Sagoma - modifica della stessa - in assenza di concessione - reato previsto dall'art. 20 della legge n. 47 del 1985 - sussistenza - fattispecie: sostituzione di tetto in tegole con realizzazione di un terrazzo. In materia urbanistica la eliminazione di una copertura in tegole e la realizzazione di un terrazzo praticabile avvenute in assenza di concessione integrano la violazione dell'art. 20 della legge 28/2/85 n. 47, in quanto sono assoggettati al regime concessorio tutti gli interventi che incidono sull'assetto del territorio, e tra questi rientra la modifica della sagoma, atteso che la sagoma si riferisce alla conformazione planovolumetrica della costruzione ed al suo perimetro inteso sia in senso verticale che orizzontale. Corte di Cassazione. Sez. III del 07/03/2001 sent. 9427

Trasformazione di sottotetto in mansarda - concessione edilizia - necessita'. La trasformazione di un sottotetto in mansarda costituisce mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale e' necessario il rilascio della concessione edilizia, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 20 lett. b) della legge 28 febbraio 1985 n. 47. Corte di Cassazione. Sez. III del 19/02/2001 sent. 6581

La eliminazione di una copertura in tegole e la realizzazione di un terrazzo praticabile è assoggettata al regime concessorio - la modifica della sagoma - conformazione planovolumetrica della costruzione. In materia urbanistica la eliminazione di una copertura in tegole e la realizzazione di un terrazzo praticabile avvenute in assenza di concessione integrano la violazione dell'art. 20 l. 28 febbraio 1985 n. 47, in quanto sono assoggettati al regime concessorio tutti gli interventi che incidono sull'assetto del territorio, e tra questi rientra la modifica della sagoma, atteso che la sagoma si riferisce alla conformazione planovolumetrica della costruzione ed al suo perimetro inteso sia in senso verticale che orizzontale. Cassazione penale, sez. III, 6 febbraio 2001, n. 9427

Distanze - comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione - normativa applicabile. Nei Comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione,"la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all’altezza di ciascun fronte dell’edificio da costruire" (comma 1, lettera c) e che "In tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti inderogabili... di distanza tra i fabbricati" (comma 8), da definire con apposito decreto (comma 9), poi approvato con D.M. n. 1444 del 1968. (Nella sentenza di primo grado si è affermato di concordare con la premessa posta dal Comune, sulla esistenza di un vuoto normativo, ma non con la conseguenza dell’applicazione dell’articolo 873 del codice civile, essendosi giudicato che "nel sistema della gerarchia delle fonti, la normativa applicabile nel caso di specie non è più l’articolo 873 del codice civile... bensì proprio il D.M. 1444/68, il quale è stato emesso in esecuzione del citato art. 41quinquies L. 1150/42 e ripete dal rango della stessa legge delegante la forza di integrare l’art. 873 c.c."). La giurisprudenza, a tal proposito, ha precisato che "l’applicabilità delle limitazioni disposte, in materia di distanze fra costruzioni, dall’articolo 41 quinquies della legge urbanistica, per i comuni sprovvisti di piani regolatori e programmi di fabbricazione, riguarda anche i comuni dotati di regolamento edilizio che non contenga prescrizioni sulle distanze" (Cass. civ. Sez. Un., 22 novembre 1994, n. 9871) e che in tal caso si applica l’articolo 873 c.c. soltanto se tale norma sia richiamata dal "regolamento in termini generici" (Cass. civ. sez. II, 3 febbraio 1999, n. 886). Consiglio di Stato, Sez. V Sentenza 23 maggio 2000 n. 2983.

Ristrutturazione e restauro - nozione. In materia edilizia, la nozione di ristrutturazione edilizia comprende il ripristino e la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell`edificio, volti a trasformare l`organismo preesistente, a condizione, però, che rimanga il medesimo per forma, volume ed altezza. Ne consegue che non si versa nell`ipotesi di lavori eseguiti in difformità dalla concessione edilizia a ristrutturare, nel caso in cui l`edificio non subisca mutamenti in ordine alla forma, al volume ed all`altezza. Cass. pen., sez. V, 18 marzo 1999, n. 3558.

Differenza tra ricostruzione e ristrutturazione. Costituisce non mero restauro bensì vera e propria ricostruzione "ex  novo" la  trasformazione  di  una tettoia  aperta  sui  tre lati e di  struttura  tubolare  metallica  in  un capannone  chiuso,  adibito  a  lavorazioni  industriali  pericolose,  in  quanto  l'intervento in  questione  non s'è  limitato  a  migliorare funzionalmente  le  preesistenze - conservandone l'assetto e le caratteristiche - né ha mantenuto una sia pur minima continuità con l'opera precedente (come  accade,  di  regola, nella ristrutturazione) ma ha posto in essere un  organismo  edilizio  del  tutto  nuovo  e  diverso,  che  non  ha  salvaguardato né l'identità né la funzione delle preesistenze. Consiglio Stato sez. V, 6 settembre 1999, n. 1019.

Costruzioni a confine - immodificabilità delle norme tecniche di attuazione del P.r.g. da parte delle successive norme dei piani particolareggiati.  L'obbligo di  osservare  per le costruzioni dal confine, la distanza  stabilita  dalle norme  tecniche di attuazione di un piano regolatore  generale non  modificabile o  inapplicabile  da  o per successive  norme di  piani particolareggiati, è immediatamente  precettivo, e la violazione è tutelabile, dal  vicino  leso  nel godimento  del proprio fondo, anche con l'azione di  manutenzione.   Cassazione civile sez. II, 25 marzo 1998, n. 3147

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